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criterio qualità

Al Festival di Salisburgo con la “kasta”, odiata perché sa coniugare i verbi

Alberto Mattioli

Opera, musica, teatro: un monumento a una certa idea di Europa illuminista, tollerante, aperta. Un ambiente borghese e mondano, che però non significa ostentatorio

Colto, cosmopolita, europeista e meritocratico: il Festival di Salisburgo sembra sempre di più un baluardo contro nazionalismi, populismi, sovranismi e, in generale, la volgarità, anche e soprattutto quella intellettuale. A differenza di quel che pensa chi non ci va, non è che la qualità artistica sia sempre stratosferica, né che ci si veda o ci si ascolti chissà che. Soltanto, è tutto concentrato: in sei settimane, quest’anno dal 18 luglio al 31 agosto, passa tutto quel che offre di meglio il convento musicale mondiale. Rappresentate tutte le tendenze, i corsi e i ricorsi artistici, le vicissitudini del gusto e della moda: unico criterio, la qualità. Uno non vale uno, insomma. Così l’appassionato diventa bulimico come il pupo cui in pasticceria viene detto “mangia pure tutto quello che vuoi”.

 

Unici limiti, il tempo – perché con quattro o cinque appuntamenti quotidiani le sovrapposizioni sono inevitabili – e i soldi – perché il Festival non è esattamente a buon mercato: 455 euro per una poltronissima all’opera sono più o meno il doppio che alla Scala, anche se quasi sempre spesi meglio. Ulteriore inconveniente, volendo, è che il Festival di Salisburgo si svolge a Salisburgo, piccola città bastardo posto, sempre implacabilmente linda e pinta come se fosse appena uscita dalla lavatrice e quindi ansiogena. Del resto, Mozart la detestava, idem il Thomas Bernhard tremendo del “Soccombente”. D’estate, poi, il centro è alluvionato da comitive di turisti in infradito che mangiano le palle di Mozart rompendoti le tue; ma per evitarli basta soggiornare nell’amena Gasthaus di campagna, possibilmente con piscina e cucina decenti. Si scende in città la sera, come i vampiri. E con i mezzi pubblici, più chic, anche perché il biglietto del Festival vale anche per il bus (oh, civiltà).

 

Poi, non è detto che tutto sia esemplare. Quest’estate la “Zauberflöte” è risultata appartenere alla famigerata categoria del “carino”, e con l’aggravante di una Regina della notte che pasticcia i picchiettati della seconda aria, sì, quella che c’è in tutti gli spot, che per Salisburgo è come se a Trastevere sbagliassero i carciofi alla giudia. Il dittico Bartók-Orff, una strana coppia con il “Barbablù” e “De temporum fine comoedia”, ha esaltato chi ama la coppia di fatto Teodor Currentzis-Romeo Castellucci, rispettivamente direttore e regista, depresso chi li odia e lasciato perplessi i neutrali. Il “Trittico” di Puccini valeva solo per l’incarnazione una e trina dell’arcidivinissima Asmik Grigorian (che però per brillare di più fa spostare Suor Angelica alla fine, e Puccini s’arrangi); la ripresa del “Barbiere di Siviglia” per la parte musicale, meravigliosamente condotta da Gianluca Capuano (Rossini con strumenti originali? Si-può-fa-re!, come strillavano in “Frankenstein junior”) con una SCNSD, alias Santa Cecilia Nostra Sempre Divina, insomma Cecilia Bartoli, semplicemente storica, però un po’ guastato dalla regia divertente ma eccessiva in tutto dell’ex tenore Rolando Villazón.

 

Lo spettacolo dell’estate risulta così una meravigliosa “Kát’a Kabanová” di Janácek: scena costituita soltanto da centinaia di comparse che danno la schiena al pubblico, l’ottusa popolazione del villaggio russo, mentre sul davanti la peccatrice Corinne Winters corre a destra e a manca come una farfalla impazzita e la suocera tremenda, Evelyn Herlitzius, declama gelida con forza tellurica i suoi atroci benpensantismi. Regia di Barrie Kosky, un genio. 

 

Il Festival che i padri fondatori vollero al centro del continente per cicatrizzarne le ferite dopo il primo dei suoi due suicidi novecenteschi resta un monumento a una certa idea di Europa, illuminista, tollerante, aperta, dove la tradizione non è conservazione e “classico” non significa mummificato. Con rare e perciò biasimate “devianze” fricchettone, è ambiente borghese, ma sì, diciamola la parolaccia, dove ancora si fa la fatica di mettersi un paio di scarpe e annodarsi una cravatta, certo anche mondano ma non ostentatorio, a uso di una kasta che insiste a non infilarsi le dita nel naso e a coniugare i verbi, e perfino in lingue che non sono la sua.

 

E la politica? Sa che il Festival è una gallina dalle uova d’oro, con indotti spettacolari, e non interviene sulle scelte artistiche, che non sono né di destra né di sinistra, ma soltanto giuste o sbagliate. Ogni riferimento alle epurazioni teatrali con relativi disastri perpetrate da questa parte delle Alpi, per esempio dai grillini a Torino o dai leghisti a Pisa, è puramente voluto. 

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