Foto di Pino Izzo

Maurizio Pollini e il genio del pianoforte tra romanticismo e modernità

Roberto Raja

Un emozionante concerto a Ravello con Schumann e Chopin

"Quando quaranta inverni cingeranno d’assedio la tua fronte…”: arrivava presto la vecchiaia nel secolo di Shakespeare, il Bardo oggi potrebbe raddoppiare con agio quegli inverni. Ottant’anni: Maurizio Pollini li compirà in gennaio, e a chi scrive sembra quasi impossibile, avendolo conosciuto musicalmente e subito amato nel pieno della sua maturità interpretativa, nella stagione in cui si era affermato come l’astro indiscusso di un nuovo pianismo e che con quello aveva schiuso a noi novizi le porte di un certo Chopin e Schumann, dell’ultimo Beethoven, delle sonate di Schubert, del repertorio del Novecento.

  

Alcune sere fa Pollini si è esibito, per la prima volta nella sua carriera, a Ravello, un luogo in cui riecheggiano ancora romanticissime memorie wagneriane temperate nel nostro caso dall’arditezza modernista dell’auditorium Oscar Niemeyer. E sì, il pubblico l’ha visto avvicinarsi al pianoforte più gracile e scavato e con la schiena un po’ curva. Ma di un affievolirsi della presenza scenica o della saldezza delle mani, bisbigliato qua e là nell’ambiente, s’è persa traccia non appena Pollini ha messo le dita sulla tastiera. Il fraseggio e il legato, il controllo del suono e del tempo: ecco il “rigore” di Pollini, ma come trasfigurato. La sobrietà interpretativa che gli si rimproverava un tempo ora è calore del canto, assecondato anche nelle sue minime increspature e però ancora una volta senza compiacimenti, senza distrazioni dall’itinerario formale e musicale dell’opera. Un’Arabesque commovente. E poi, di slancio, e non potrebbe essere altrimenti visto il folgorante attacco in divenire, ancora Schumann, la Fantasia in do maggiore, architrave con la Seconda Sonata di Chopin di un programma magnifico e da brividi.

  

Qui, ancora più che altrove, erano forti le attese. La Fantasia di Schumann è stata, nel 1973, una delle primissime incisioni del pianista milanese per la Deutsche Grammophon. Un disco che si ascoltava e riascoltava, catturati dal primo tempo del pezzo, “quanto di più appassionato abbia mai fatto” (cit. Schumann), e dall’intenso lirismo del terzo. E ascoltando si favoleggiava la difficoltà del finale del secondo movimento (bisognava favoleggiarla, perché dal disco, dall’esecuzione, percepivi questo fuoco d’artificio come il passaggio più naturale del mondo) e si ammirava l’esattezza dell’interpretazione, il rigore, ancora, la giustezza formale ecc., tutti i caratteri del Pollini di allora, insomma. Oggi il gesto – il gesto musicale, perché il gesto fisico nel suo intatto vigore è ancora di una sorprendente compostezza – è più libero e ardito, il pedale più generoso, il pianoforte stesso sembra acquistare una nuova dimensione. E sempre, qui come nell’architettura sonora della Sonata di Chopin, domina l’urgenza del discorso e dell’idea musicale. 

   
Dello Chopin suonato mille volte da Pollini si può dire anche solo che sembrava di ascoltarlo per la prima volta: negli squarci di modernità che si aprivano talvolta nell’armonia, nell’andamento scultoreo della Polacca op. 53 o tra le perle e i cristalli della Berceuse. E nella Sonata il cuore s’è fermato all’ascolto di una Marche funèbre scabra e intensa, declamata fino alle soglie dell’espressionismo, e poi dell’enigmatico Finale, un vorticoso battito d’ali sul vuoto, le dita (e la mente)  incuranti dell’assedio degli anni.

  
Maurizio Pollini suonerà lunedì prossimo al Festival di Salisburgo, identica la locandina. Il Ravello Festival, per il secondo anno con la direzione artistica di Alessio Vlad, prosegue fino al 28 agosto: nello scenario unico del Belvedere di Villa Rufolo in programma fra l’altro due serate dell’Orchestra del Teatro Mariinskij diretta da Valery Gergiev e un concerto del pianista Igor Levit con le ultime tre Sonate di Beethoven.

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