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Un cuore umano, dal principio

Simonetta Sciandivasci

“Sono attratta dal dramma”: Nada si racconta. E torna bambina nel romanzo di una vita difficile e lucente

Nada mi pranza davanti con un cappuccino e quattro pasticcini, o forse sono cinque. Non so se siano troppo grandi i pasticcini o troppo piccolo il piatto che li contiene, mi sembra che tutto esondi, Nada compresa, soprattutto lei, che parla e mangia e ride e piange, o semplicemente lacrima perché da qualche parte dovrà pur uscire fuori tutta l’energia che è, che ha, il fiume che si porta dentro. “Sono golosa”, mi dice, e credo sia la prima volta in vita mia che sento una donna dirmi di essere golosa senza un’ombra di senso di colpa o giustificazione o sfida negli occhi. Tutto quello che dice Nada è vibrante e mai tempestoso. In pace. Le chiedo se sia spensierata e mi dice di no. Se sia felice, o almeno serena, come usa domandare adesso, fateci caso, perché alla felicità non crede più nessuno, però alla serenità sì, è il giusto compromesso, il solo possibile: infelici però sereni, analgesia garantita. “Non sono né felice né serena, sono felice e serena, sono tutto e niente, cambio di momento in momento perché cambia quello che vedo e quello che sento, che mi colpisce”. Però di “Il mio cuore umano” (Atlantide), il suo primo libro, appena ripubblicato, non ha cambiato neanche una virgola, sebbene di anni ne siano passati tanti da quando l’ha scritto, e ciò nonostante quella storia, che è la storia della sua famiglia e dei suoi primi quindici anni di vita, la rappresenta ancora, perfettamente. Nessuno di noi è un testimone fedele del proprio passato, di niente ci serviamo in modo più capzioso che della memoria, allora tanto vale fidarsi di una versione, la prima: non sapremo mai quale sia la giusta distanza di tempo dall’evento e dal suo ricordo, per ricostruirlo com’è stato davvero; la nostra storia personale non è come la storia del mondo, che per raccontarla al meglio è necessario aspettare molti anni da quando è successa (ne era convinto Marc Bloch, e chi lo sa se cambierebbe idea vedendo come viene manipolato il passato adesso, come il tempo vada avanti senza lenire le ferite e spargendoci sopra il sale).

 

“Sono la stessa bambina che ero. Ho le stesse paure: ora come allora mi sento esclusa dal mondo, chiedo amore continuamente”

“Non sono cattolica, però prego tantissimo. Quando sono nella natura, che è ciò in cui credo, non temo nulla, neppure la morte”

“Quando ho riletto il libro, mi sono resa conto di essere ancora la bambina che ho raccontato. Non so se sia una cosa buona o cattiva, ma sono esattamente lei, con le stesse ansie, identiche paure, uguali sogni: ora come allora mi sento esclusa dal mondo degli altri, incerta, amata meno di quanto vorrei”. Lei, la più amata? “E’ vero, sono sempre stata amatissima, ma non mi è mai bastato, non mi basta mai: credo sia perché amo più di quanto mi amano. Sono inguaribile, affamata in modo inestinguibile”. Ne soffre? “Sì e no. Sono gelosa e di questo soffro, e so che è assurdo, ma contro certe cose non si può combattere, o meglio si può ma è impossibile vincere. La bambina povera che ero è ancora qua, non andrà mai via, ed è una tipetta esigente, che chiede e dà coccole, conferme, prove”. Insomma non si può cambiare. “Ci si deve accontentare di ciò che si è”. E se una è un disastro, un dramma, un garbuglio di guai, un ripostiglio di mostri? “Bene! Io sono sempre stata attratta dal dramma. Nel dramma c’è la verità, ci sono le persone che si danno, che sbagliano, desiderano, provano”. E falliscono. “E che male c’è”. Nessuno, ma il punto è che male fa. “Ma soffrire è bello, importante. Non bisogna averne paura. Io temo solamente il dolore fisico, non quello spirituale, di sentimenti, quello più umano. Sono abituata: sin da piccola ho sempre sofferto moltissimo. Se non lo avessi fatto non esisterei davvero, sarei un essere effimero. La mia famiglia era complicata, mia madre stava sempre male, io non volevo fare questo lavoro, poi quando ho cominciato a volerlo fare, mi impedivano di farlo come volevo. E’ stato sempre tutto difficile, doloroso e bellissimo”. Di quel dolore, Nada sembra innamorata. Ci è rimasta attaccata. La storia della sua famiglia non è strappalacrime, però è densa, carica di fatica, passione, pudore, cedimenti. Ha avuto una famiglia numerosa e ardita, difficile ed energetica, viva che quanta vita le ha passato senza chiederla indietro mai. Una famiglia italiana novecentesca di quelle possenti, che assorbivano tutto perché non temevano niente, perché stavano dentro una comunità a cui si sentivano di dover dare conto e contributo.

 

Nada Malanima è nata il 17 novembre del 1953, a Gabbro, vicino Livorno, mentre sua nonna urlava all’ostetrica di sbrigarsi perché alle cinque del pomeriggio sarebbero passate le streghe. Nove mesi prima, sua madre e suo padre avevano fatto l’amore in una strada di campagna, mentre tornavano in vespa da una balera. La mattina dopo, sua madre aveva detto a suo padre: “Sono incinta”, e quello non le aveva creduto e le aveva ricordato che secondo i dottori lei era sterile. Gli stessi dottori le consigliarono di interrompere la gravidanza, perché sarebbe stato molto rischioso portarla avanti e lei si fece convincere, prese delle medicine ma poi smise: “Se lo devo perdere, questo figlio, lo perderò naturalmente”, disse. Non perse niente e Nada nacque col soffio al cuore, inaspettati capelli rossi – “l’avrà fatta col cenciaio”, urlava la nonna – e il nome della zingara che predisse: questa bambina girerà il mondo. Era una donna complicata, la madre di Nada: certe volte facile e certe altre tormentata, a sua figlia diceva che aveva paura di metterle gli spilli nella minestra, e non l’abbracciava mai, però “sentiva la responsabilità verso tutti e non lo nascondeva. Per questo pretendeva che l’aiutassimo”.

 

Scrive Nadia Terranova in “Addio fantasmi” che dalle madri non c’è riparo. Ed è vero. Ed è la sola grazia che abbiamo. Quando chiedo a Nada il ricordo di un momento con sua madre, mi sembra che diventi più alta mentre mi dice che “lei è sempre un ricordo meraviglioso, continuo a scriverne sempre, nei libri, nelle canzoni, perché voglio riprendermela, andare dentro di lei, alla fine è sempre da lei che torno, e credo che lo facciamo tutti, anche se le madri ci creano dei disastri, perché non c’è nessuno, nella vita, con cui puoi essere terribile come con loro; soltanto con loro puoi permetterti tutto, stanno lì e si prendono qualunque cosa e non la schivano, l’accettano e accolgono”. Nel suo ultimo disco, “E’ un momento difficile, tesoro”, c’è una canzone per sua madre che fa: “Mi sono ritrovata sola in mezzo al mondo mentre tante cose mi saltavano intorno, il silenzio è tanto ma tu sei la forza”. “Non l’avevo in mente, è venuta da sola. Quando scrivo i miei sono sempre pensieri non pensati che escono da un’enorme voragine che ho dentro. Quando mi sono accorta che da quel dirupo è uscita mia madre, ho pianto. E credo che questa canzone mi abbia messa in pace con lei. Però mi manca sempre, terribilmente. Mi mancano le sue telefonate al mattino, quando mi diceva di non bere, cosa mangiare, come prendermi cura di me e di tutto. Lo ha fatto sempre, anche quando ero adulta, nonostante io sbuffassi o andassi su tutte le furie. Come vorrei riaverla”.

 

Nel libro di Nada c’è sempre una grande pace, anche nelle pagine più inquiete, negli scontri tra l’intemperanza e la necessità, tra il desiderio e il limite. Nella postfazione a questa nuova edizione scrive: “La verità è che non mi sono mai allontana da quel mucchio di case lanciate da una mano maldestra sul costone di un monte di gabbriccio. Chiudo gli occhi e il profumo dell’aria mi porta nella mia casa d’origine. In pochi minuti attraverso anni e distanze, momenti belli e brutti, ed è tutto così giusto”. Chi è che rende giusta la nostra vita, noi, gli altri o il destino? “Tutto quello che ci succede è giusto. Dobbiamo prendere tutto”. Allora non esistono gli sbagli? “Esistono, ma sono imprescindibili. Non si smette mai di farne, non c’è altro modo di vivere. I soli errori che non ammetto sono quelli commessi con cognizione del male che arrecano, ma sono convinta che nella maggior parte dei casi le persone sbaglino inconsapevolmente”. L’ottimismo etico non porta bene, Socrate pensava che l’essere umano agisce male per ignoranza del bene ed è morto avvelenato. “Non sono né ottimista né fatalista. Non sono niente. Anzi: non mi sento niente. Lo dice anche il mio nome: Nada significa nulla, ma pure suono. Una cosa che penso, ogni tanto, è che forse neppure esistiamo, e viviamo dentro un gioco beffardo, una gigantesca illusione”. Se così fosse, saremmo liberi? “Non lo so. Tutte le volte che penso di esserlo mi rendo conto che la sola cosa che vale davvero è cercare di restare fedele a chi sono ed è a questo che ho improntato la mia vita: scoprire cosa posso fare e farlo”. In esergo al libro, c’è una frase di Piero Ciampi: “Io non ho perduto il mio cuore strada facendo”. C’è un cuore anche nel titolo del libro. Va bene che l’amore non è mai abbastanza, ma non sarà troppo? “Quando mi portarono via da casa per fare la cantante mi sentii perduta, violata. Avevo altri progetti, mi sarebbe piaciuto andare all’università e studiare astronomia. Ci misi tre anni ad accettare che la mia carriera di musicista funzionava e che probabilmente ero nata per fare quello, non per studiare le stelle. Il cuore non sceglie per noi: il cuore ci offre l’integrità per perseguire una scelta. Non rincorro gli impulsi, anche se sono un’innamorata cronica. La nostra strada si disvela lentamente, può capitare che la prima volta che si manifesta anziché essere una strada sia uno sbarramento”.

 

Esiste l’autocensura, nella vita di Nada? “No. Appunto: non ho perduto il mio cuore strada facendo. Piero Ciampi è stato un incontro meraviglioso in questo senso: ero una bambina, lui mi ha insegnato che la sola cosa che contava, soprattutto in quel momento, era conoscermi e rimanere attaccata a chi ero”. La storia del suo libro è soprattutto il racconto di questo attaccamento, di come si scopra di appartenere a un posto, a una casa, e alle persone che li abitano, anche se si è andati via troppo presto, costretti a seguire un destino girovago però mai ondivago. E’ salda, Nada. E io vorrei sapere se ci si diventa, ci si nasce, ci si deve esercitare. “Io sono grata, da sempre, al posto in cui sono nata e alle persone che lì ho amato. Questo libro è una dichiarazione d’amore per loro. La mia solidità la devo a loro, è per questo che non ho dimenticato nessun dettaglio dei miei primi anni di vita. La prima volta che presentai questo libro c’era Mario Monicelli, mi disse che ne avrebbe volentieri fatto un film perché, come me, amava i dettagli. Ricordo il calore che sentii, scrivendolo, quando mi accorsi che ricordavo perfettamente tutto”. Prima di “Il mio cuore umano”, Nada non aveva scritto che musica e una raccolta di poesie, “Le mie madri”. Pensava che i romanzi fossero troppo per lei. “Ho ancora una forma estrema di pudore, quando scrivo. L’inadeguatezza l’ho superata, ma non vinta. A convincermi a mettermi a scrivere è stato il mio editore, Simone Caltabellota (ora ad Atlantide, all’epoca – era il 2008 – a Fazi). Dopo la prima stesura avrei buttato il manoscritto nel caminetto, ma sono stata fermata”. Meno male. Non ha mai superato il cruccio di essere stata ritirata dalla scuola, è anche per questo che si sente sempre un po’ fuori posto quando scrive. Com’è ingenua (e bellissima) questa convinzione che hanno i non scrittori del fare i libri con serietà e per mestiere. Sarà che vive in campagna, Nada, e questo la aiuta a mantenere le idee incontaminate dal compromesso, dallo scambio continuo, dal ribasso cittadino. “Ma io amo la città, ci torno spesso, però non potrei viverci. La campagna mi consente un rapporto migliore e più diretto con le persone e con il tempo. Non mi sento tagliata fuori dal mondo, anzi: mi sento più attenta, più coinvolta. Penso sempre che Emily Dickinson ha raccontato la vita da una stanza”.

 

“Mia madre sentiva la responsabilità verso tutti e non lo nascondeva. Per questo pretendeva che l’aiutassimo”

“Ho ancora una forma estrema di pudore, quando scrivo. L’inadeguatezza l’ho superata, ma non vinta”

Perché è un momento difficile, il nostro? “Perché non ci soddisfa niente. Possediamo senza avere, senza sentire. Mi rendo conto che può sembrare un discorso banale, ma abbiamo perso completamente il contatto con la nostra anima, desideriamo soltanto il potere: il controllo sulle persone, su ciò che proviamo, sul nostro destino. Ottenere questo potere non è difficile, eppure nessuno si chiede come mai, una volta raggiunto, non sedi la nostra frustrazione, non ci renda felici. Se ci soddisfacesse, non avrei niente da dire. Invece siamo sempre più infelici ed è questo che dico nel mio album: niente mi tira su, niente mi dà pace. Quando canto “è un momento difficile, tesoro”, ci metto ironia e speranza, spero sempre che il mio lavoro non sia divertente ma renda felici, come fanno le mamme. Quel ‘tesoro’ lo dico da mamma”.

 

In un suo libro ha immaginato che, in futuro, le gravidanze si terranno fuori dal corpo, in una specie di utero-macchina. Che paura. “Quando l’ho scritto mi sembrava semplicemente una distopia terribile e affascinante. Ripensandoci adesso, però, mi sembra una possibilità tutt’altro che remota. Io non ho paura del futuro, e quello che a noi sembra un’aberrazione, a volte, non è nient’altro che questo: il tempo che va avanti e ci sfugge, perché non siamo capaci di stare al suo passo. Io ho un vecchio cellulare, non rispondo mai, ho faticato ad abituarmi al computer, amo la lentezza, ma non sono un esempio da seguire. Trovo inammissibile non saper sfruttare gli strumenti che abbiamo. Benjamin lo ha spiegato nell’‘Angelus Novus’: dal paradiso soffia su di noi un vento che ci spinge ad andare avanti. Ed è un vento inarrestabile”.

 

Crede in Dio? “Non sono cattolica. Però prego moltissimo. Mi raccomando alle cose che mi mettono in comunicazione con quello che ho intorno. Mi piace il suono della preghiera. La religione è una storia stupenda, un’invenzione indispensabile”. Serve a dimenticare la paura? “A volte sì. Altre, serve ad averne di più. Io ho paura di moltissime cose, ma quando sono nella natura, che è ciò in cui credo, è l’oggetto della mia fede, non temo nulla, neppure la morte. Mi dispiace che la nostra cultura non ci insegni, come quelle orientali, che morire fa parte della vita: se riuscissimo a crederci, se fossimo abituati a pensarlo, la perdita ci risulterebbe più sopportabile”. Cos’altro c’è, nella vita, di insopportabile? “Perdere tempo in cose che non ci interessano, o non ci piacciono, o ci fanno arrabbiare”. A Verona ci sarebbe andata, oggi, a manifestare? “No. E’ un circo, e non mi interessa”.

 

Non c’è niente di meglio che stare in silenzio e pensare al meglio: lo ha scritto lei. Vale ancora? “Varrà sempre”.

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