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I club di Berlino come il Berghain e la sottocultura che il mainstream non conosce

Vanni Santoni

“Club confidential” di Lele Sacchi non è un saggio fuori tempo massimo 

Ammetto che quando Utet mi ha inviato “Club Confidential” del dj Lele Sacchi mi sono chiesto se davvero qualcuno andasse ancora in discoteca – e se, soppiantata questa dai rave, e poi i rave dai festival goa, non si trattasse di un saggio fuori tempo massimo. Mi sbagliavo. Non perché quell’epopea non sia conclusa – mentre lo leggevo, passavano sui miei social le immagini del “Club 2 Club” torinese, postate da gente che non ha mai messo piede in un club, in un rave o in un festival, ma che ora sperimenta quelle emozioni in versione zuppa riscaldata, allo stesso modo in cui va a sentire il più normie dei gruppi indie – ma perché Sacchi mostra, da subito, non solo amore per la materia, ma anche una lucidità di sguardo che qualifica il suo saggio come la necessaria storicizzazione di quella parte di vita notturna che si svolgeva nei locali italiani ed europei. Non è un caso che Sacchi concluda il suo excursus a Berlino, forse l’unico luogo in cui il clubbing, grazie anche a un fortunato incrocio fra quantità e qualità della proposta, è rimasto una sottocultura a pieno titolo, a volte con tratti addirittura controculturali. E proprio a Berlino fissa il proprio punto di vista un altro interessante saggio a tema danzereccio uscito in questi giorni, “Berghain: per un’architettura del perforante” di Salvatore Simioli (LetteraVentidue, prefazione di Claudio Kulesko).

L’aspirazione, riuscita, dell’architetto Simioli, è analizzare il Berghain, oggi il club più famoso della capitale tedesca, con categorie squisitamente attinenti alla sua disciplina. Per chi non lo conoscesse, il Berghain è un locale assurto a notorietà globale a causa della sua imponderabile selezione all’ingresso, non legata a parametri che il pubblico possa interpretare. Parametri che certo non sono dettati da logiche glamour o di classe, ma invero neanche da esigenze filosoficamente cogenti come quelle indicate da Simioli. Noi che al Berghain ci andavamo in tempi non sospetti, sappiamo che quella oggi messa in atto non è che una esiziale forma di difesa: nel momento in cui viene a esistere un “turismo della vita notturna” e non hai dalla tua il nomadismo proprio dei rave – il Berghain sta lì vicino alla Ostbanhof ed è pure grosso, essendo un’ex centrale elettrica –, la purezza di un’esperienza che vuole mantenersi sinceramente sotterranea non può che passare dal tener fuori tali turisti. Anche per questo il rave ha sepolto il club: lì, tra infoline e luoghi a dir poco infrattati, sono la motivazione e il collegamento con un network a fare la selezione, laddove invece i festival goa e psytrance – nei quali oggi, con buona pace di noi “teknusi”, storicamente critici verso la vena hippie dei loro partecipanti, si trova la maggior vitalità culturale del mondo rave – selezionano proponendo soltanto biglietti per l’intera durata dell’evento: molto economici se stai una settimana, carissimi se vai per una sola sera – e così curiosi, turisti e sbronzoni di passaggio sono tagliati fuori. In attesa di un saggio su tali festival, chi cerca una prospettiva sulle evoluzioni e le implicazioni sociali del ballo farà allora bene a guardare indietro, non solo in termini storici, ma anche editoriali: è di questi giorni la riedizione, con capitoli aggiuntivi e nuovi apparati iconografici, di “Rave new world” del giornalista musicale Tobia D’Onofrio (Agenzia X), saggio cruciale che indaga il primo quarto di secolo del mondo dei free party identificando in modo molto efficace la sua natura di fenomeno culturale prettamente e specificamente europeo. Se il rave nasce in Europa, è pur vero che la techno nasce negli Stati Uniti, e specificamente a Detroit, città abituata a un altro battito meccanico e ripetitivo, quello delle catene di montaggio della Ford. “Techno: ritmi afrofuturisti” della semiologa Claudia Attimonelli, appena ristampato da Meltemi, racconta le origini di questo genere e i suoi effetti di lungo termine, ricordandone le radici “nere”: neri erano del resto i dj Derrick May, Juan Atkins e Kevin Saunderson che per primi isolarono quei suoni da altre tracce, facendo sparire il cantato e ritrovando un battito capace di parlare al profondo, e nero era il conduttore radiofonico The Electrifying Mojo, che portando a Detroit il suono dei Kraftwerk fece scattare una scintilla decisiva nelle teste di quei tre ragazzini, i quali misero in moto una macchina capace di portarci dai club nostrani a quelli di Berlino, da lì ai rave e infine ai festival goa – e per venticinque anni filati.

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