John Cage affrontò lo studio del silenzio fino agli estremi di 4’33”: un brano di quattro minuti e 33 secondi in cui il pianista non tocca lo strumento. La musica sono i suoni prodotti dalla sala

La voce del silenzio

Mario Leone

Suoni e rumori stanno occupando tutti gli spazi. Eppure, la Bibbia e la musica del Novecento dicono che l’alternativa non è il nulla

Tendete una corda elastica. Fatela vibrare. Questa è la genesi di un suono, secondo l’accezione puramente scolastica.

 

Approfondiamo. In acustica fisica si ha che l’onda nel suo moto di propagazione lungo una corda viene riflessa quando incontra una delle due estremità fisse della corda stessa. A questo punto si avranno due onde che si propagano contemporaneamente in versi opposti. L’interazione tra queste due onde contropropaganti è detta interferenza, fenomeno per il quale, alle opportune frequenze, si creano dei punti fermi in talune zone della corda. I cosiddetti punti stazionari. Non si tratta dell’assenza di onde, bensì di una particolare composizione delle onde stesse che in quel punto genera silenzio. Quell’assenza di vibrazione è il silenzio, un aspetto profondamente intrinseco alla musica. Talmente connaturato da esser presente nel prospetto stesso delle figure musicali (come teorizzava tra gli altri Francescone da Colonia nel suo Ars cantus mensurabilis) nel quale a una precisa figura corrisponde la sua pausa di egual valore.

 

Il testo biblico originale riporta un termine, per definire la voce di Dio, che è letteralmente tradotto come "un filo sonoro di silenzio"

Comunemente al termine silenzio è associata l’idea del nulla, dell’assenza totale di qualcosa. Vuoto. Staticità. La non vita. Numerose le voci che si oppongono a una tale ricostruzione. A partire da Jean-Paul Sartre, nell’editoriale comparso su Les Temps modernès nel 1945: “Si stia pure fermi e muti come sassi, la nostra stessa passività sarà un’azione”. Il silenzio, inteso come passività sonora, è un moto. Un’entità con connotati ben definiti. Parimenti il filosofo Federico Sciacca: “ll silenzio non è muto e ciò che è muto non sempre è silenzio. Il silenzio è una forma di comunicazione”. Come nel dialogo tra il Signore ed Elia dove “il Signore non era nella grandine, nella pioggia, nella tempesta, nel vento […] Il Signore era nella brezza soave” (Re 19,11-13). Il testo biblico originale riporta un termine, per definire la voce di Dio, che è letteralmente tradotto come “un filo sonoro di silenzio”. La nostra stessa esperienza, anche quotidiana, sconfessa l’assunto comune. Il silenzio è la condizione del respiro, quando prendi fiato è impossibile parlare. Oppure quanto spesso ci capita di dire: «Ho bisogno di silenzio». Se il silenzio è qualcosa di cui si può avvertire il bisogno, ergo non è il nulla, non una pura e semplice assenza, ma è qualcosa. Alcune volte l’unica forma di comunicare il nostro pensiero quando si rimane senza parole di fronte a un avvenimento imprevisto.

 

Nel 1930 John Cage visita la camera anecoica allestita presso l’Università di Harvard. Un ambiente atto a ottenere il massimo abbattimento delle riflessioni del suono tramite l’adozione di forme particolari e materiali fonoassorbenti, e tale da realizzare potenzialmente il silenzio perfetto. Molto spesso la camera anecoica può compromettere l’efficacia dei sistemi di orientamento che utilizzano posti nell’orecchio interno tanto che nel passato si riteneva portasse addirittura alla follia. Durante la permanenza all’interno della struttura, Cage riuscì ad avvertire due suoni, uno alto (il sistema nervoso in funzione) e uno basso (la circolazione del sangue). Di qui la certezza che il silenzio, quello assoluto, non esistesse. “Accade sempre qualcosa che produce suono” diceva il compositore. Cage affronta lo studio del silenzio dapprima in due opere particolari, Duet for two flutes e Waiting, fino all’estremizzazione. E’ il 29 agosto del 1954. Woodstock (New York). C’è la prima esecuzione di 4’33’’, ultima composizione del Maestro per strumento musicale o ensemble. La prima prevede un solo strumento, il pianoforte suonato da David Tudor. La sala è gremita. L’esecutore entra in scena. Si sistema. Fa andare un cronometro. Aspetta lo scoccare di trenta secondi. Poi di due minuti e ventitré. E, infine, un minuto e quaranta secondi. In totale 4’33’’ di “musica”, dove però l’esecutore non ha affondato alcun tasto. Saluta il pubblico e ritorna in camerino tra lo sbigottimento generale. Una evidente provocazione un’esplicita presa di posizione: il silenzio non esiste. In effetti la musica di quei 4’33’’ consiste dei suoni prodotti dalla sala. Durante quella lontana prima pioveva e l’acqua batteva sul tetto del teatro, la gente bisbigliava. Uno spartito che sarà sempre nuovo a seconda dei luoghi in cui sarà eseguito, delle formazioni che lo “suoneranno” e delle persone che l’ascolteranno. “Sentivo e speravo – dice Cage – di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero ascoltare a un concerto”.

 

Altri compositori e musicisti, forse tutti, hanno dovuto fare i conti in maniera più o meno consapevole con il silenzio.

 

L'esperienza del pedagogista musicale e compositore Tullio Visioli in una scuola primaria romana. Lo stupore dei bambini

Terzo movimento del Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov. Siamo alle battute finali, il pianoforte si fionda sulla virtuosistica cadenza finale. Un vortice di note che termina su un unico sol acuto in ottava. Rachmaninov mette una pausa di un movimento con un punto coronato (che significa che quel momento di silenzio può durare a discrezione dell’esecutore). Un momento di assoluto silenzio prima dell’esplosione del Maestoso finale nel fortissimo. Nel repertorio pianistico romantico, con Fryderyc Chopin e Robert Schumann non mancano esempi. In Schumann la pausa è utilizzata per frammentare ancora di più il discorso musicale (chiaro segno della frammentazione mentale che la schizofrenia produceva nella mente del povero Robert), in Chopin invece il silenzio è finalizzato a marcare il colore malinconico del brano. Un utilizzo coloristico della pausa. Un esempio è quello del Preludio op. 28 n. 4 (quello che poi verrà suonato al funerale del compositore polacco) ove Chopin mette una pausa con corona prima dei due accordi conclusivi.

  

Anche in campo sinfonico gli esempi abbondano. Pensate cosa sarebbe l’incipit della Quinta Sinfonia di Ludwig van Beethoven senza quella pausa in battere che prelude ai tre sol in levare. Più avanti negli anni Anton Bruckner utilizzerà la così detta “grande pausa” (momento in cui tutta l’orchestra contemporaneamente tace) come mezzo di scaricamento di una grande tensione sonora. Gustav Mahler, al termine del primo movimento della sua Seconda Sinfonia (Auferstehung), scrive in partitura: “Hier folgt eine Pause von mindestens 5 minutes” (qui occorrono almeno 5 minuti di pausa). Una richiesta esplicita di riposo sonoro, un momento di riflessione. Una cesura che però è dentro la musica tanto da essere riportata esplicitamente in partitura come una vera e propria indicazione musicale.

 

Il Novecento è il secolo del silenzio. Non solo John Cage. Nel 1902 Claude Debussy nel Pelléas et Mélisande vorrebbe ricreare una situazione di silenzio assoluto per la morte di Mélisande. La pausa non può esprimere una cosa simile (perché, come si diceva, parte del discorso musicale) allora Debussy pone sulla stanghetta di battuta un punto coronato, quasi a dire che quella battuta (in cui Mélisande muore) debba durare all’infinito: questa indicazione è ancora fonte di notevoli interpretazioni. Anche nella musica di Anton Webern sembra che i suoni siano pensati per evidenziare i silenzi, questi ultimi concepiti o come distensione di una tensione o al contrario come preparazione della tensione stessa. Si potrebbe citare anche Berg che utilizza il silenzio in zone precise, spesso i finali, come sfogo dove il suono va a sparire. Oppure Schönberg, come il su citato Mahler, nei Sechs kleine Klavierstucken Opus 19 mette una piccola nota in partitura: “Nach jedem stück ausgiebige Pause; die Stücke dürfen nicht ineinander ubergehen” (Ampia pausa dopo ogni pezzo, i pezzi non possono essere suonati di seguito). E così via con Morton Feldman, Arvo Pärt, Yves Klein.

 

Nella camera anecoica Cage avvertì due suoni, uno alto (il sistema nervoso in funzione) e uno basso (la circolazione del sangue)

Oggi cosa succede? E’ lampante come ogni spazio del nostro vivere sia sovrastato da suono. Autobus, alberghi, ascensori, luoghi di benessere. Proliferano cuffiette nelle orecchie per ascoltare musica quando corriamo, pedaliamo. Persino in acqua si può portare l’mp3. Utilizziamo suoni per eliminare altri suoni. Come il caso di quelle cuffie dotate di circuiti per la riduzione del rumore che sfruttano dei microfoni sistemati nei padiglioni che percepiscono i rumori che ci circondano e creano delle onde sonore opposte che vanno a cancellarli o attenuarli. In Ucraina lo studio di design Hochu Rayu ha inventato Helmfon, un casco che ti permette di cancellare tutti i suoni circostanti. Sembrerebbe molto richiesto dai lavoratori in open space.

 

Anche in quei luoghi come la scuola, dove si dovrebbe insegnare il silenzio (non imporlo), siamo sovraccarichi di suono. Spesso vediamo ciondolare maestre sgolate che parlano a gesti, professori che interrogano perché non hanno la voce per spiegare. Nelle scuole il silenzio non è insegnato: è estorto con la minaccia e i bambini lo vivono come assoluto momento di frustrazione. Abbiamo insegnanti che urlano chiedendo il silenzio, un ossimoro in termini. Non come accadeva ai tempi di Niccolò Tommaseo che nel suo Della Educazione, desideri e saggi pratici, ricorda le scuole a Milano e Parigi dove incontrava bambini compostamente contenti grazie ai cenni delle maestre “non date con quelle tabelle che rendono sì mal suono, ma con leggere cenno della mano […] perché se la maestra fa rumore essa, e i bambini ne faranno di più […] la scuola diventa un ordinato tumulto”. Era il 1836 e la scuola raccontata da Tommaseo ci testimonia come il silenzio sia un qualcosa a cui introdurre i bambini guidati da maestre simili, per movenze, a un direttore d’orchestra. Un’esperienza sul silenzio come quella di Tullio Visioli, pedagogista musicale e compositore che, con una terza classe di scuola primaria a Roma, sta svolgendo da mesi un’esperienza proprio sul silenzio.

 

Il punto di partenza lo racconta al Foglio lo stesso Visioli: “Ormai da tantissimi anni studio il silenzio. Compongo anche dei brani musicali per bambini che prevedono l’uso del silenzio. In questi anni poi ho potuto notare come ci si muova su una serie di luoghi comuni. Si richieda ai bambini un qualcosa, il fare silenzio, di cui non hanno esperienza, oppure ne hanno una, teorica e negativa”. Visioli entra nelle classi e come primo passo stimola, nel dialogo con i bambini, questa connaturata esigenza di silenzio. Con il passare degli incontri i bambini iniziano a entusiasmarsi, colgono quanto il silenzio sia dentro l’esperienza della vita quotidiana. Si cercano e si ascoltano le canzoni ispirate al tema. I bambini iniziano a coinvolgersi e verbalizzano esperienze di silenzio a loro vicine: “un paese nuovo di notte”, “un paese innevato”, “un cuore che batte e il sangue che scorre” (quest’ultima espressione ricorda tanto l’esperienza di Cage). Un bambino perentorio: “Per me il silenzio è qualcosa”. “Uno stupore – continua Visioli – vedere quanto l’esperienza di ascolto, nello specifico quella del silenzio, sia precisa e documentabile nel bambino. Questa è legata a situazioni di scoperta e piacere. Non solo… il bambino riesce a riprodurre sonorità ascoltate con una varietà di elementi e fedeltà di particolari rispetto al suono originale. Potrei documentare quello che dico con le numerose registrazioni che faccio insieme ai miei alunni”. Così si arriva a 4’33’’ di John Cage, proposta agli stessi bambini, una composizione, come si diceva, filosofica e provocatoria. I bambini serissimi, per l’esecuzione della partitura di Cage (sulla quale avevano raccolto precedentemente una serie di informazioni). Precisi nei tre movimenti. Attenti a mantenere il silenzio e cogliere quello che succedeva attorno. Ancora Visioli: “Una classe ha voluto ripetere l’esperienza per poterla eseguire meglio”. Il lavoro è durato sei mesi culminando nella lettura de Le voci, poesia di Elio Pecora che ha introdotto il lavoro sull’ascolto interiore, “far silenzio per sentire quello che abbiamo dentro”, ascoltare, come diceva Boezio nel V secolo, quella musica humana che “ciascuno che discenda in se stesso, la intende”. Per capire, come ha colto quel bambino, che il silenzio è qualcosa. Il silenzio è un rapporto. Un dialogo. Disarmato, denso. Un modo misteriosamente diverso per dire tu. Per dire io, consapevolmente.

Di più su questi argomenti: