Chuck Berry (foto LaPresse)

Anche da morto, Chuck Berry è al suo posto. E sono gli altri a doverlo imitare

Stefano Pistolini

Esce l'album postumo e originale del fenomeno del Rock 'n' roll

Per scrivere un epilogo degno alla sua stupefacente carriera, Chuck Berry, passato a miglior vita il 18 marzo alla bella età di 90 anni, pubblica ora il suo album postumo, secondo una programmazione resa nota già prima del decesso: la data era fissata, metà giugno, vivo o morto, per la commercializzazione del suo primo album d’inediti, 39 anni dopo il precedente (da lì in poi solo live, greatest hits e ricucinature del suo impressionante catalogo). Tutta la sua corte si era mobilitata per l’evento, e poi ci ha pensato lui, consumato uomo di spettacolo, a metterci la perla: esiste migliore trovata pubblicitaria che passare al creatore, annunciando un disco inedito, con tanto di singolo di traino in rampa di lancio? Tutti titoli freschi, roba da far diventar matti i fan, da provocare sbalzi pericolosi nei loro respiratori d’ossigeno e crepe fatali in migliaia di cateteri. Eppure tutto ciò, così vetusto, residuale, decrepito, è commovente. Appartiene a un mondo in cui le cose di facevano per bene, anche se in modo casareccio, in cui non si cambiava casacca, in cui si continuava a fare ciò per cui si era conosciuti e rispettati, con un’immutata gratitudine verso il pubblico generoso che ti aveva tolto dalla strada. Il rock’n’roll era questo, no? Una festa itinerante messa su da una banda di tipi poco raccomandabili, con la prerogativa di far divertire i ragazzini e d’essere da loro adorati, difesi, trattati come un patrimonio riservato e inaccessibile. C’erano soldi da fare, belle macchine da comprare, ragazze con cui spassarsela e allora perché non provarci ancora una volta adesso, nel tempo della casa di riposo, delle nostalgie e della vita cocoon? Quelli come Chuck sono malandrini veri, col pelo sullo stomaco e la chitarra pronta a uccidere, a patto di venire pagati in anticipo e in contanti. Che la sacra origine del pop non venga mai contaminata, dai buonismi, bisogna augurarsi. Perché la storia era un’altra, grondava di sesso, ribellione e tentazioni, fuori dagli schemi e dalle convenzioni ed eternamente a zonzo. Berry è stato un venerabili profeta di questo culto – venga per questo ricordato.

 

Perciò ecco “Chuck”, testamento coerentissimo, privo della sia pur pallida intenzione d’adeguarsi ai suoni del contemporaneo. Caspita: il trademark è suo, sono gli altri a doverlo imitare. E quando parte il disco, accende i motori la macchina del tempo. 70 anni dopo quest’uomo è ancora al suo posto, a guardia del sacrario ribollente del rock’n’roll, come l’ultimo militare giapponese sulla famosa isoletta. Il suono è lo stesso, elementare, fluido, pneumatico – quel ballabile midtempo, senza fretta o tremori, carico di humour, vagamente apatico, tirato per i capelli dalle raffiche di licks di chitarre sparate probabilmente dalle mani dei successori del casato Berry, figli e nipoti, tutti qui presenti a festeggiare il grande iniziatore. Formula easy e infallibile: i pistoni girano ed è come se si generasse uno special effect della realtà virtuale, come se un mondo si ricomponesse davanti ai nostri occhi, popolato di ballerine sexy e ragazzi cool e sul tutto regnasse il grande emblema della gioventù, su cui consumeremo ragionamenti, turbamenti e perfino pentimenti. Arriva la voce di Chuck e la domanda è legittima: 90 anni? Scherzate? Sembra un ragazzino. Forse è un trucco e questa roba giaceva in qualche baule da un quarto di secolo, oppure il patto che ha stretto col demonio dà veramente risultati stupefacenti? Chissenefrega. Perché la voce è quella, sottile e di gola, sempre con l’aria di prendere per i fondelli e col gusto per tutti i doppi sensi immaginabili. I pezzi si somigliano, non fanno alcuno sforzo per sorprendere, sono rilassate variazioni sui 4 o 5 temi che Berry ha sempre coltivato, nel range che corre dalla ballata bluesy al ballabile più scatenato (non manca nemmeno il valzerino da aja, sua vecchia fissazione, dopo averne viste migliaia di feste di paese). I testi raccontano i soliti quadretti di poco di buono dal fascino irresistibile e ragazze per niente disposte a farsi prendere in giro, capaci, come canta lui “d’intossicarti il cervello”. Un’ascolto affascinante e ovviamente raggelante. Concluso il quale ci si sentirebbe in dovere di pronunciare qualche massima dei filosofi greci sul “tutto scorre” e giù di lì. Invece la battuta finale ce la passa Chuck in persona, nei versetti di “Big Boys”: lui dice “Sì, sì / io non piango / sì sì / lo sai perché / sì sì / io so quando e come / sì sì / non ci sono se o ma / sì sì / io ho sempre cercato di divertirmi / fin quando ero un ragazzino piccolo piccolo”. Ottimo. Riposi in pace.

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