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il foglio della moda

La sostenibilità nella moda? Meglio se resta uno slogan

Silvia Gambi

Per superare un impasse produttivo ciclopico, sarebbe arrivato il momento non solo di promuovere il riciclo ma di valorizzare la connessione emotiva con gli abiti attraverso la loro riparazione e riuso. Come era logico attendersi, questo non piace all’industria della moda e del tessile. Che frena su nuove norme anche a Bruxelles (Italia compresa)

La sostenibilità nella moda è un tema complesso; soprattutto, non è un traguardo, ma un percorso. Lungo. Per questo, la locuzione più corretta per parlare di strategie legate alla sostenibilità è quella di transizione sostenibile: le imprese che vogliono impegnarsi seriamente per attuarla non possono infatti mettere in pratica solo qualche cambiamento, ma lavorare per un’evoluzione totale, basata su nuovi paradigmi. In molti casi, questo cambiamento è difficile da misurare e nell’opacità (di approccio, di attività) che inevitabilmente si crea, nascono interpretazioni diverse di una parola magica, “moda sostenibile”, che attrae i consumatori, ma che richiede un forte impegno da parte delle aziende. E come per ogni tema complesso da affrontare, emergono delle tendenze, quasi dei mantra, sui quali si concentra periodicamente l’attenzione di tutti e che hanno la funzione di far sembrare gestibile un cambiamento che ancora stenta a prendere un indirizzo preciso e una forma.

 

Il primo di questi è il riciclo (recycling, upcycling), che sembra la soluzione di tutto. Siamo invasi da abiti usati e da invenduti: creare nuovi materiali o rigenerare quelli esistenti pare infatti il modo migliore per risolvere il problema della sovrapproduzione e dare una spinta decisiva all’economia circolare. Ma nonostante se ne parli da tanto tempo, il riciclo da tessuto a tessuto è una soluzione di nicchia, perché la maggior parte della produzione avviene in maniera tradizionale, cioè utilizzando materie vergini. Gli ostacoli principali a questo cambiamento sono legati a ragioni tecnologiche, ma anche alla scarsità di investimenti in questo settore e infine alle difficoltà per le aziende di misurarsi con fibre riciclate: per inserirle nei processi di produzione, è infatti necessario fare sperimentazione e ricerca, ma il mondo della moda sta facendo i conti con un forte rallentamento della domanda, che ha provocato un freno negli investimenti.

 

E’ questa, infatti, la ragione che ha portato al fallimento dell’azienda svedese Renewcell, che aveva da poco inaugurato un impianto industriale in grado di riciclare gli abiti usati in cotone e gli scarti per creare una nuova fibra cellulosica, chiamata Circulose. Molti brand della moda, da H&M a Zara, hanno realizzato delle capsule utilizzando questo materiale, ma nessuno ha inserito Circulose nelle proprie collezioni in maniera stabile. Sono anni che si parla di circolarità nella moda, ma le soluzioni in questa direzione sono sempre approcciate con circospezione, anche quando questa sia ampiamente disponibile sul mercato. Da voci di mercato, sembra che già nelle prossime settimane si presenteranno dei compratori per Renewcell e che l’impianto tornerà operativo, ma questa vicenda è servita ad aprire gli occhi sulla scarsa propensione al cambiamento del sistema della moda. Non bastano le capsule per trasformare il settore. Secondo il British Fashion Council, ad oggi sul pianeta è disponibile un numero sufficiente di abiti per vestire le prossime sei generazioni. E’ un’immagine che ci aiuta a visualizzare il problema che esiste con la sovrapproduzione nella moda: non basta incrementare il riciclo, se questo è l’unica soluzione per risolvere il problema. Innanzitutto è importante ridurre la produzione di capi, allungarne la vita, puntare quindi sulla loro qualità. Proporre continuamente nuove collezioni, per sollecitare il consumatore a nuovi acquisti, non aiuta a creare connessione con quello che viene acquistato. Il dibattito sulla durabilità è molto vivace: è certo che un capo debba essere tecnicamente concepito per durare, ma deve anche avere una durabilità emotiva. Quando un abito viene gettato, può essere danneggiato, ma anche essere passato di moda e dunque proprio su questo tema è importante lavorare: la riparazione e il riuso sono fondamentali per stabilire una connessione con un abito e per riconoscerne il suo valore. Il riciclo deve essere messo in pratica dopo non vi siano altre soluzioni praticabili.

Questi nuovi modelli di business, basati sull’allungamento di vita dei capi, devono ancora essere esplorati, ma sono fondamentali per la trasformazione. Questo, senza dimenticare che ridurre la produzione è un atto non più rimandabile: presto sarà obbligatorio per i brand dichiarare sui propri siti quanto abbiano prodotto e quanto venduto. Mediamente circa il 30, per cento dei capi prodotti resta invenduto, chiuso in grandi centri logistici perché non può essere distrutto, in attesa di soluzione: si tratta di risorse sprecate e il sistema non può più permetterselo. Il gruppo H&M ha presentato la scorsa settimana il report di sostenibilità, nel quale si evidenzia che l’85 per cento dei materiali utilizzati nel 2023 provenisse da fonti sostenibili o riciclabili. Andando a guardare più a fondo, si apprende che il 25 per cento dei materiali è riciclato, e che si tratta principalmente di poliestere. Il gruppo svedese afferma di voler eliminare il poliestere vergine, proveniente da fonti fossili, entro il 2025. Già nel 2023, il 79 per cento del poliestere utilizzato da H&M era riciclato. E questo è un altro dei trend di cui abbiamo scritto in precedenza: l’abbandono delle fibre fossili e la scelta delle fibre naturali. E’ molto difficile immaginare come possano essere sostituite le fibre sintetiche, che oggi coprono il 53 per cento del totale delle fibre utilizzate al mondo e resta da capire come riuscire a farlo in pochi anni. La Commissione Europea ha più volte affermato che il riciclo da fibra a fibra sia la soluzione da prediligere: siamo sommersi da abiti di poliestere, dovremmo trovare soluzioni efficaci per riciclare quello già esistente senza utilizzare quello che proviene da altri settori. Le fibre sintetiche hanno anche un altro grosso problema: il rilascio di microplastiche. Su questo fronte, abbiamo qualche problema di misurazione, perché non c’è ancora una legge che affermi chiaramente quale metodologia utilizzare, ma in qualche modo il problema dell’invasione dei prodotti sintetici, anche nel loro fine vita, andrà sicuramente gestito.

Parlare di sostenibilità significa anche toccare il tema della responsabilità, innanzitutto verso la propria catena di fornitura. Per produrre un capo di abbigliamento è necessaria la collaborazione di molte aziende e lavoratori, con filiere che sono localizzate in tutto il mondo. Garantire il rispetto dei diritti delle persone che lavorano all’interno della catena di produzione è un tema complicato affrontare, ma è anche prioritario: troppo spesso emergono storie di sfruttamento e di diritti violati, situazioni che potrebbero essere evitate lavorando sulla trasparenza e intervenendo con verifiche dirette. La Corporate Social Due Diligence Directive, alla quale la Commissione Europea ha lavorato fra il 2022 e il 2023, avrebbe dovuto servire a questo: stabilire un meccanismo di controllo e di verifica sul rispetto dei diritti lungo la catena di fornitura da parte di chi immette i prodotti sul mercato. Ma al passaggio finale, c’è stato uno stop da parte di diversi Paesi, Italia compresa. Si è aperta una nuova fase di consultazioni e il Consiglio Europeo ha approvato la proposta di direttiva nel corso dell’ultimo incontro utile prima dello scioglimento delle istituzioni europee. Ma il documento approvato è stato notevolmente ridimensionato, per trovare una posizione di compromesso: saranno tenute a fare i controlli le aziende con mille dipendenti e un fatturato minimo di 450 milioni di euro. Si stima che queste modifiche ridurranno il numero di aziende interessate: saranno solo lo 0,05 per cento del numero totale di imprese che operano nell’Unione Europea. Ancora non è detta l’ultima parola: la Direttiva dovrà essere approvata nel corso dell’ultima seduta del Parlamento Europeo a fine aprile e potrebbe subire un nuovo blocco. Le imminenti elezioni europee stanno infatti rallentando le strategie di sostenibilità di alcuni comparti produttivi: la Commissione uscente si è caratterizzata per un forte impegno ecologista, ma la situazione politica europea potrebbe dare spazio a un nuovo equilibrio istituzionale che non ritenga questi temi prioritari. La Strategia Europea per il Tessile Sostenibile e Circolare, destinata a trasformare il settore, potrebbe concretizzarsi in atti meno incisivi, dare al settore tempi più lunghi per un cambiamento che invece non sembra rimandabile. Dando sempre di più alla sostenibilità nella moda l’aura del mito. O dello slogan.

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