Il Foglio della moda

Soffocati dai vestiti. I danni del fast fashion e i risvolti del riciclo in un documentario

Antonio Mancinelli

Scogliere di scarti in Ghana, biodiversità annientata in Indonesia, ma anche in Veneto ci sono state intossicazioni da idrorepellenti. Intervista itinerante a Matteo Ward, imprenditore e curatore del progetto

Come comportarsi per trovare una soluzione, quando fai parte del problema? Mica facile darsi una risposta. Matteo Ward ci illustra il primo step della sua rivelazione e poi della successiva rivoluzione che lo ha trasmutato da muto e muscoloso mannequin a loquace imprenditore grazie al marchio di moda Wråd, nel corso di un’intervista che sembra fatta a un James Bond ambientalista. Biondo, millennial e di gentile aspetto – “ho trentasette anni, sono stremato, eppure gli altri non smettono di dirmi quanto mi trovino bene” - si collega dallo smartphone su Zoom prima camminando, poi correndo, poi planando in una macchina in corsa e poi finendola con una videochiamata da un cellulare prestato perché il suo “è morto” ma lui è vivo e sta a Vicenza, mentre noi siamo spiaggiati davanti al computer di casa sorseggiando caffè né equo né solidale (spoiler: alla fine, ci sentiremo colpevoli).

 

L’auto in cui si è rifugiato è guidata da Olmo Parenti e Matteo Keffer, i registi della docuserie “Junk – Armadi pieni” prodotta da Sky e da Will Ita, presentata ieri in anteprima a BASE, centro polifunzionale milanese molto hype, che dal quattro aprile verrà trasmessa su Sky (e in streaming su Now Tv). Ward ne è guida, volto, voce, conduttore: “È un viaggio in tre continenti per rivelare l’impatto del fast fashion sul pianeta dal punto di vista sociale, ambientale e umano attraverso le storie e le immagini di chi subisce questa sovrapproduzione di vestiti”, ansima saltapicchiando da un marciapiede a un sedile. “In Cile e in Ghana, le discariche tessili del mondo, affrontiamo il tema degli scarti di indumenti che vi vengono depositati: nel solo paese africano, ne arrivano quindici milioni a settimana, depositati in strati così alti da aver modificato la morfologia del territorio: adesso sulle spiagge si vedono montagne che prima non c’erano. In Indonesia scopriamo come la produzione di fibre artificiali, in modo particolare il rayon, stia annientando la biodiversità del Paese: abbiamo filmato decine di famiglie di gorilla scappare dalla loro terra perché colpiti dalla peggiore carestia mai capitata. In Bangladesh viene mostrato cosa è cambiato e cosa no, a distanza di dieci anni, dal crollo dello stabilimento di Rana Plaza, il più grande incidente avvenuto in una fabbrica tessile, con oltre mille e cento vittime. Il viaggio prosegue poi in India, per scoprire come una richiesta sempre maggiore abbia stravolto millenni di cultura della coltivazione del cotone nel Paese, la fibra più diffusa e in apparenza innocente, che però è dannosa per le altre specie se coltivata estensivamente. L’ultima tappa è l’Italia, dove narriamo i problemi che abbiamo a casa nostra, ma che a volte sono meno visibili di altre. Vedi le 350mila persone che in Veneto sono intossicate dalle PFAS, le sostanze perfluoroalchiliche usate per impermeabilizzare tessuti tecnici, tappeti, una miriade di oggetti etichettati come “antimacchia”, “idrorepellenti” e addirittura “atossici”. Meno male che, pochi minuti prima di questa tirata, ci ha rassicurato sullo spirito di questo documentario che “non sarà una rottura di c., perché non vuole indurre ansia”. Siamo sicuri della prima parte della frase, meno della seconda, visto che già ci vorremmo stracciare le vesti dall’angoscia. Le sue sono elegantissime: una giacca oversize a quadri un po’ taglialegna, un po’ artista newyorkese su un cardigan grigio asciutto e sottile. “Sono tutti del nostro brand, e non sono poi così male, no?”.

 

Per Matteo Ward, il viaggio nella cultura dell’upcycling è iniziato quando ha capito che stava giocando nel campionato sbagliato. Inizi anni Duemila: nato da mamma italiana e papà americano, fornito di laurea in economia alla Bocconi e tesi preparata a Seoul, è in attesa di partire per la specializzazione a Barcellona quando a Milano s’imbatte in un’offerta da urlo: “Stavo parlando con un’amica e mi hanno fermato proponendomi di lavorare per il flagship store di Abercrombie & Fitch, ovvero il male assoluto. Poiché all’epoca era una realtà nuova anche per i valori che propugnava, decido di entrare a far parte della commissione per la diversità e l’inclusione: per dire, il coming out l’ho fatto addirittura prima al lavoro che in famiglia. Finché un giorno è stato sufficiente che un cliente mi facesse un po’ di domande un po’ più approfondite, diciamo più insolite, che è arrivata la crisi. In azienda non ci avevano formato a rispondere a domande del tipo “chi ha fatto queste magliette, e dove, e in quali condizioni”? La tragedia del Rana Plaza non ha fatto altro che aumentare le mie preoccupazioni. Da quel momento si è innescato un meccanismo che mi ha portato a dimettermi nel giorno in cui mi avrebbero promosso e ad incamminarmi su un’altra strada: quella dell’imprenditoria consapevole o meglio, “più” consapevole. Sappiamo tutti che la moda veramente sostenibile non c’è e che non può esistere. Se ne può fare una versione meno lesiva, niente di più”. Ci sembra sia già tanto, onestamente. Gli domandiamo se non abbia mai temuto di rinunciare ai suoi megastipendi. Matteo ha molto rispetto per la paura: “A farmi agire è stata la paura di aver commesso il più grande errore della mia vita nel sentirmi parte di un sistema che mi allontanava dalla persona che avrei voluto essere. Al lavoro facevo cose belle e remunerative, ma non in linea con chi, eticamente, volevo essere da grande. Allo specchio mi sono chiesto: “Che faccio? Da dove inizio?”.

 

Così nasce nel 2015 Wråd - l’apice sulla vocale serve a far risuonare la parola come sintesi tra “raw” e “rad” (“grezzo” e “figo”) -, una community che Matteo coordina con Silvia Giovanardi, ex capodesigner del menswear per Etro, e Victor Santiago, fotografo e suo ex collega. Iniziano le prime consulenze, le lezioni negli istituti e le accademie di moda. “Ma avevamo anche la necessità di offrire qualcosa di tangibile a chi aderisse ai nostri valori, anche se produrre abiti non è così urgente, come abbiamo detto. Se lei mi chiedesse a quale nostro progetto io sia più affezionato è l’aver realizzato tutine per bambini nati prematuri, in grado di ridurre la proliferazione batterica e quindi di limitare il numero di decessi causati dalle infezioni. Ma col tempo sono diventato più “morbido” e oggi accolgo anche il desiderio di novità, purché si traduca nella multifunzionalità, come per esempio l’overshirt che indosso e che è realizzata con tessuti di scarto, o il cardigan, tinto con la grafite per renderlo grigio antracite”. Nel 2017, il team Wråd inizia a pensare prodotti con un obiettivo: coltivare la filosofia dell’upcycling nella maniera più accattivante possibile, “anche se lavorando con materiali di scarsissima qualità come quelli usati dal fast-fashion, sarà difficilissimo farne il vintage di domani”. Le Graphi-tee, magliette, felpe e cardigan stampati grazie a un’antica tecnica di tintura romana con la grafite, in questo caso riciclata dalla ditta Alisea (dove Susanna Martucci è stata a sua volta autrice della “matita perpetua” che nasce dagli scarti di grafite delle industrie di componenti elettrici), vengono riconosciute come migliori oggetti dell’anno al Red Dot Design, concorso internazionale che premia l’inventiva e l’impegno. La polvere di grafite, se non è destinata a un nuovo scopo, verrebbe gettata in discarica, rendendo sterile il suolo; finora sono state recuperate diciassette tonnellate di polvere di grafite e il consumo di acqua nella fase di tintura è ridotto del novanta per cento. “A darci ascolto per la prima volta sono stati solo due buyer: Federico Marchetti (il fondatore di Yoox Net-à-Porter ora presidente della Fashion Task Force fondata da re Carlo III, ndr) e le sorelle Biffi. Poi è arrivato Salvatore Ferragamo e addirittura Starbucks, che a Milano ci ha chiesto di realizzare le divise dei dipendenti. Il nostro brand vuole stimolare l’innovazione e la ricerca e, soprattutto, vorremmo restituire al territorio italiano la capacità di mantenere la sua rilevanza nel mondo dal punto di vista manifatturiero”.

 

Le attività diversificate di Wråd, motivate da uno scopo comune, si basano su tre pilastri fondamentali: istruire, innovare e rendere liberi attraverso il design. “Ultimamente sto leggendo scritti di filosofi e architetti che mi ispirano per comprendere il mondo di oggi. Penso a Ettore Sottsass, ad Achille Castiglioni, a Dieter Rams, a tutti i movimenti di designer radicali tra degli anni Settanta… Pazzesco. Hanno lavorato in un contesto per molti aspetti analogo a quello odierno, che ci offre spunti di riflessione per quello che ricerchiamo oggi, usando altre parole: il mio mantra è “l’utopia è necessaria perché è il corrimano etico della società”. L’ha scritta Enzo Mari e dentro c’è tutta la mia filosofia, è essenziale perché permette alla società di stabilire dei valori morali da seguire”. Senta, Matteo: lei è giovane e quindi può aiutarci a dipanare un dilemma. Quei ragazzini e ragazzine che di venerdì fanno ai Fridays for Future inaugurati da Greta Thunberg e il sabato pomeriggio si mettono in fila per comprarsi l’ennesimo paio di jeans a 12,99 euro o il top paillettato a 5,99, come li si convince ad acquistare un capo upcycled che, oltre tutto, costa di più? “Non è assolutamente colpa loro, sia chiaro. È vero: se si guardano le cifre del venduto, negli ultimi anni, si vede che magari sarà diminuito il potere d’acquisto, ma è aumentata la quantità di abbigliamento acquistato. La spesa media dell’europeo si è innalzata, e questo è il punto: si è creata una bulimia dello shopping come hobby – e in questo social hanno una grande parte di colpevolezza – che gioca sulle debolezze dell’essere umano”. Quindi? “Lancio una provocazione: sui pacchetti delle sigarette, per distogliere i fumatori, ci sono immagini orrende. E allora, perché non mettere su ogni capo del fast-fashion una scritta che riporti “Attenzione: comprare questa maglietta può causare dipendenza”?. Perché è di patologia che si tratta, non di necessità o semplicemente, di esaudire un desiderio. Un tossicodipendente non lo giudichiamo male, ma come una persona che ha attraversato dei problemi: perché non fare lo stesso con gli shopping addict?”.

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