Moda a Milano: concreta. Anche essenziale. E pure creativa

It's a wrap! La fashion week per il prossimo inverno si è conclusa, si apre Parigi. Ecco tutto quello che c'è da sapere, nell'alfabeto di prammatica del Foglio

Fabiana Giacomotti

A dispetto della bislacca convinzione, comune a molti critici e osservatori, che il “lusso silenzioso” – cioè bei cappotti, maglioni di qualità e durata, stivali di eleganza eterna – abbia sostituito la creatività, che nello sguardo dei suddetti significa prevalentemente ardite architetture teatrali da postare sul proprio account senza acquistarne mezza, nella settimana della moda milanese (che poi sono quattro giorni, non va bene e ci arriveremo fra qualche riga), i migliori esempi di questo genere di moda sono stati anche quelli più creativi. Nella sua ridefinizione dei codici vestimentari della femminilità, Prada è tornato in via definitiva a dare la linea, per esempio, e non solo in Italia. Matthieu Blazy costruisce i suoi capi per Bottega Veneta con sapienza e una serie di dettagli che si trovano solo nella couture, e il suo discepolo Matteo Tamburini ne ha dato prova alla sfilata di debutto per Tod’s, mentre nessuno riesce ancora ad accostarsi alla grazia di Giorgio Armani, soprattutto nella sera, alla sua idea di una donna gentile, innamorata della levità che non significa leggerezza, ma eleganza di modi e, soprattutto, di pensiero. L’idea sciocchissima che lusso silenzioso, garbato o quieto che dir si voglia equivalga a una serie di noiosi twin set di cashmere grigi modello nonna negli Anni Sessanta è smentita dai cashmere e le lane doppie, lavorate a mano, trompe l’oeil, di Gucci e di Brunello Cucinelli, dai cappotti e dalle giacche di Max Mara, una delle sfilate più riuscite perfino nei giudizi spontanei, che non significa scritti sui media, della cosiddetta fashion community; Sono lusso garbato perfino le forme nuove, che poi nuovissime non sono visto che guardano agli Anni Sessanta e ancora alla costruzione delle maniche secentesca, di Jil Sander e sempre di Bottega Veneta, che sono andata a osservare da vicino, il giorno successivo alla sfilata, per essere certa che non avessero il giromanica o due pince per dare loro forma, ma fossero tagliate da un unico pezzo di tessuto, rigido, perché mantenessero la forma pur con la necessaria ariosità e fossero insomma capi di interessante valore intrinseco. Nei giorni scorsi, una firma straniera molto nota ha scritto che la moda che si vede in Italia sembra fatta apposta per essere venduta, che concede molto al “reality check”, il confronto con la realtà, intendendo con questo una moda di facile comprensione anche a chi, ed è certamente la maggioranza, di moda non capisce alcunché ma vuole lo stesso vestirsi “alla moda”, che non mi pare né un controsenso né un desiderio riprovevole. Per quanto possa essere considerata espressione di cultura, da quasi due secoli la moda è riprodotta all’infinito, o quasi, per essere venduta a chiunque se lo possa o voglia permettere, e a tutti gli epigoni che la copiano a basso prezzo e con materiali di scarsa qualità. La presa di potere delle multinazionali sui grandi brand negli ultimi trent’anni, e l’ingresso nella finanza, hanno ulteriormente cambiato le carte in tavola, dunque sì, se ci sono marchi che, anche in seno ai conglomerati, possono permettersi di fare la cosiddetta “ricerca”, cioè di sperimentare senza dover perseguire il difficilissimo equilibrio fra novità, attrattività, equilibrio fra prezzo e qualità, difesa degli eventuali valori di archivio e di status, oltre una certa soglia di giro d’affari le strategie cambiano. Quello che può permettersi di fare Jil Sander o Marni non può permettersi di farlo Gucci, semplicemente, e in parte nemmeno Prada, la cui meravigliosa sfilata, una volta scomposta, è fatta di portabilissime gonne, molto ben costruite in quello stile Raf Simons che ci e mi piaceva già ai tempi della sua direzione creativa di Dior, di belle camicie e di caban ampi ma che non tagliano la figura, e di abiti da sera in raso duchesse che valorizzano il décollété. Tutti capi che, una volta riposti anche per qualche anno, torneranno a fare ottima figura nella loro seconda vita: che cosa ci sia di male in questo, visto che da anni parliamo di sostenibilità e di durabilità dei capi non è dato capire. Nelle strategie che sottendono alla moda vista in queste settimane fra New York, Londra e Milano, e a poche ore dall’inizio della fashion week di Parigi, c’è l’evidenza che il mondo, attraversato da conflitti cruenti, piegato da ondate migratorie drammatiche, comunque meno “liquido”, e dunque meno disposto a spendere in abbigliamento, in quello che spende debba trovare solidità e certezze. Chi ha guardato alla recente sfilata couture di John Galliano per Margiela come all’unica espressione di “vera moda” dell’ultimo periodo, ne ha perso il contenuto sovversivo, di critica profonda alla borghesia di oggi, e forse anche il contenuto commerciale, la furba proiezione di marketing dell’intera operazione, che nel giro di tre settimane ha spinto nelle boutique del marchio schiere di aspiranti designer che morire aprissero un libro ma ora sono corsi a comprarsi gli stivaletti tabi o a cercare un’imitazione a basso prezzo del caban Margiela indossato da Ghali a Sanremo. La moda, come ogni altra espressione della creatività artistica umana, non sta vivendo il suo momento migliore. Quando, nel breve incontro intimo che riserva sempre alle firme a lui più vicine, Armani parla della difficoltà di fare moda in questo momento, si riferisce sia alla situazione politica attuale sia all’imbarazzo che prova nel vedere “certe esagerazioni: è difficile mettere insieme una collezione realistica in un mondo impostato sull’esagerazione”. Questo, dice, è “un lavoro faticoso”, e non solo perché segua la costruzione dei suoi capi, dei “fiori di inverno” che compaiono ricamati, jacquard, stampati, in questa collezione “da otto mesi”, ma perché tenere fede all’evoluzione della realtà in un mondo dove “la moda ne dipinge un altro” è impegno costante. Lontanissimo da Armani per età e formazione, dice qualcosa di simile Andrea Adamo (Andreadamo il brand): “La massima soddisfazione per un designer non è vedere sfilare in passerella la propria collezione. La vera realizzazione è creare capi che una donna desidera. E’ arrivare alle persone con un’idea. Creare qualcosa che prima non c’era”. Lui ha creato corpi alternativi, seconde pelli lavorando su materiali inediti. Un’estetica che richiede il giusto impegno intellettuale, senza esagerare. E ora il consueto alfabeto, modello wrap ma milanese

 

A come Agé (modelle). A Londra e New York sfilano con i loro capelli grigi e bianchi, tendenza degli ultimi anni oggi più mainstream. A Milano Armani fa aprire la passerella a Gina Di Bernardo, “la modella che più ha capito, profondamente, la mia moda”. Potete vederla immortalata nella mostra dedicata all’opera fotografica di Aldo Fallai per Giorgio Armani al Silos, fino al prossimo 11 agosto.

 

B come borse. Dopo anni di stanchezza, molti modelli nuovi. Interessante la linea “nuvola” di Furla, leggerissima, ottima l’idea di Ferragamo di insistere sul nuovo modello Hug, che è proprio un abbraccio.

 

C come calendario. Vent’anni dopo il grande scontro con New York, ci risiamo. Oltre duecento appuntamenti in cinque giorni fra sfilate e presentazioni sono impossibili non solo da frequentare, ma perfino da tenere a mente. Parigi riesce a distribuire meglio i propri appuntamenti perché, in fondo, i gruppi che controllano tutti i marchi importanti sono due, più gli indipendenti Chanel ed Hermès, e dunque perché sostanzialmente blinda la permanenza di buyer e stampa su dieci giorni. Cari tutti, ricordatevi che i media internazionali hanno bisogno di voi, adesso soprattutto, quanto e più abbiate bisogno voi di loro, che ormai lavorate in piena autonomia sul digitale con contenuti anche esclusivi. I budget pubblicitari sono fatti apposta per ricordarlo.

 

C come cluster. Ormai li si riconosce già in passerella. Ecco la proposta per il mercato americano, ecco quella per gli asiatici, quella per i ricchi cafoni, un po’ occultata. Nessuno dei marchi che superano il miliardo di fatturato può permettersi di fare diversamente.

 

C come cuissard (o cuissardes, al femminile). Le walkirie evocate dai media in questi giorni nulla spartiscono con gli stivali modello Lestage-per-Luigi XIV (sono miti, nell’iconografia di fantasia dei pittori e degli incisori vestivano comunque sandali) che si rincorrono non solo nei favolosi modelli di Gucci e di Ferragamo, ma anche nei modelli un po’ fetish (gambale alto, stringa che lo avvolge, tacco alto) di Cuoio di Toscana per Marco Rambaldi e perfino nelle galoche in gomma di Luisa Spagnoli.

 

D come drappeggi. Nodi e drappeggi sul fianco ovunque, per dare sinuosità all’abito ed esaltare la bellezza del tessuto. Da Etro a Chiara Boni.

  

F come fiori. Di bella freschezza quelli di ispirazione Sixties, grafici, di Richard Quinn per Max&Co (“ho lavorato molto con l’archivio dell’azienda”), ovviamente preziosi quelli applicati da Armani sugli abiti da sera.

 

N come Novanta (Anni). L’entusiasmo per il decennio è palpabile. Però da Fendi, borse escluse dove Silvia Venturini Fendi ha fatto il consueto impareggiabile lavoro (da tenere d’occhio e i nuovi modelli, come la Simply Fendi, andranno a ruba, ho visto sfilare metà del mio archivio personale datato 1997-1999, giacche col collo stondato compreso e negli stessi colori (prugna, marrone foncé), e non l’ho trovato così divertente.

 

P come pelliccia. Vere, pochissime. Le più belle sono tagliate corte e fatte di lana: da Etro a Luisa Spagnoli a Missoni a Ermanno Scervino, un gran lavorare di tricot, effetto pelo lungo.

  

P come piume. Meno sui vestiti, molto nelle borse da sera (Ferragamo) e soprattutto a coprire le scarpe, modello zampa di gallina ornamentale, ma state sicuri che avranno successo. Poi ci sono le finte piume, in realtà organza froissé, tagliata come se, degli abiti e delle gonne di Bottega Veneta, grande esercizio di tecnica-in-riduzione.

  

R come rosso. In molte declinazioni, dal burgundy brillante e molto imitato di Gucci al rosso lacca (o Ferrari) di Ferrari stesso. Con il marrone cupo, il nero, il grigio anche in declinazione argento liquido e tocchi di giallo, saranno i colori della prossima stagione (sì, questa informazione interessa ancora).

  

S come Set o scenografia. Sì,il raffinato design Fifties autentico di Bottega Veneta. Però Vince a mani basse Etro con i suoi grandi mascheroni in gesso a colori vivaci Lo rivedrete presto, in luoghi acconci.

   

S come Sergio Loro Piana. Non è solo per via del suo ritratto con il fratello Pier Luigi (Pigi) negli anni d’oro, affisso all’ingresso della grande showroom di via Moscova, fra le centinaia di campionari storici e la prima macchina cardatrice (con i cardi). E’ proprio lo stile della nuova collezione a ricordarcelo, compreso il vezzo di chiudere sciarpe e scialli e anche le giacche di lana cotta con una spilla. Molta nostalgia di quegli anni, di quello squisito grand seigneur, di quello stile che A$ap Rocky ed epigoni non comprenderanno mai, per quante tiare e spille neoclassiche possano acquistare da Pennisi e denti incapsulati mostrare alle telecamere del team di Bottega Veneta

   

S come sottoveste (abito a). Abbinato con un cappotto di lana maschile, rigoroso, a contrasto, l’abito a sottoveste in pizzo e velluto, del modello portato in passerella da Gucci, è uno dei grandi ritorni degli Anni Novanta e di quel “gusto Alberta Ferretti”, forte e delicato, degli anni in cui Franca Sozzani ne era la prima consulente, ascoltatissima e temutissima. Quegli anni però sono finiti, e disgraziatamente Alberta Ferretti non ne ha infilate abbastanza nella sua collezione e sono rimaste quasi esclusivamente le lane pesanti.

  

S come spalmatura. L’effetto lucido-laccato sui colori cupi è una delle tendenze di stagione. Particolarmente interessante sui montoni rovesciati (sì, lo so che li avevamo già trent’anni fa, ma esistono anche le nuove generazioni) e perfino sul jeans. Da Ferrari continuiamo ad aspettarci belle giacche in pelle, anche a imitazione Hermès se serve, di raffinata eleganza, però le gonne ampie in denim spalmato erano oggettivamente bellissime, e poi in effetti non è che il ferrarista medio aspiri al quiet luxury

  

T come tacchi. Sono tornati quelli alti, e sottili

  

P.S. Una grande G come GRAZIE. Grazie agli uffici di comunicazione di tutte le sfilate a cui sono riuscita ad assistere nonostante un femore ancora in via di guarigione e due ingombranti stampelle. Grazie, random, a Irene, Adelaide, Isabella, Andrea, Carmela, Marta, Elisabetta, Cristiana, Lucia, Maria Cristina, Antonella, Emanuela, Carlo, Jayson, Silvia, Giulia, Edda, Vera, a tutto il team della security che collabora con Camera Nazionale della Moda e in particolare a Fabio, che mi hanno fatto scudo fisicamente quando l’orda di fotografi, fan dei vari “idol” cinesi e coreani ospiti e semplici distratti rischiava di falciarmi.