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sleeping brand

Walter Albini ,"gioiello nascosto della moda", e la difficoltà di rilanciare un "marchio dormiente"

Fabiana Giacomotti

Per lui fu coniato il termine "stilista". Ora Bidayat, piattaforma di investimento del ceo di Mayhoola (che possiede tra gli altri Valentino), ha acquisito la proprietà intellettuale e gli archivi. Ma il rilancio comporta un doppio svantaggio imprenditoriale

Benché fra poche settimane, il 31 maggio, ricorrano i quarant’anni dalla morte di Walter Albini, l’uomo per il quale venne coniato il termine di stilista, doveva esserci un motivo più concreto se da mesi Carla Sozzani sta lavorando a una mostra antologica e se il CSAC di Parma, a cui il compagno di un tempo Paolo Rinaldi ha conferito tutti i disegni e parte dell’archivio, non risponde alle mail da mesi.

   

Il motivo, anticipato da un’indiscrezione di ”Panorama” qualche settimana fa, è stato confermato in queste ore dalla notizia che Bidayat, veicolo di investimento svizzero guidato da Rachid Mohamed Rachid, cioè il ceo di Mayhoola, holding di Valentino e Balmain, ha acquisito la proprietà intellettuale e la parte degli archivi ancora in mano privata, nello specifico di Barbara Curti, che sul proprio profilo Linked In si dichiara “chief memory officer”, una carica oggettivamente deliziosa, e che per lunghi anni, con la madre Marisa, collezionista della prima ora di Albini, ne ha difeso amorevolmente l’eredità, compreso il fantastico appartamento milanese di via Cossa, alle spalle di piazza Duse, capolavoro glamour Anni Settanta, colonne a micro-specchi comprese, nel quale in un momento o nell’altro quasi chiunque si occupi di moda ha scattato un servizio.

 

Dice Rachid che Albini è “un gioiello nascosto della moda italiana”: in realtà, è un gioiello dimenticato dal pubblico quanto citato dai designer, non ultimo Alessandro Michele a cui si dice verrà affidato il rilancio, sebbene sia molto improbabile che questo possa avvenire almeno fino a quando scadrà il (lungo?) periodo di non concorrenza che il designer ha siglato con Kering al momento della sua uscita da Gucci. Albini è stato per la moda quello che Gaspare Spontini è stato per la musica. Uno da cui tutti hanno tratto per così dire “ispirazione”, cioè che hanno copiato a mani basse. La cosa lo avrebbe fatto certamente sorridere, visto che era stato lui il primo ad affermare come nella moda non vi fosse niente da scoprire, e che la scelta migliore per un designer moderno fosse di “raffinare l’antico e il suo buon gusto”. Ad Albini piacevano molto i tardi Anni Venti-primi Trenta, sui quali modellò tutti i Settanta italiani e, con poche eccezioni, il suo suggerimento è stato rispettato alla lettera.

 

Le sue intuizioni pure. La prima: la diffusione del concetto di Made in Italy. La seconda: la creazione della figura dello stilista, fino a quel momento patrimonio semantico della letteratura (Gabriele D’Annunzio, per dirne uno, era considerato un fantastico stilista della parola), come interprete, anche per più marchi, di un’idea estetica. La terza: l’uscita della moda di alta gamma dall’atelier e il suo ingresso nelle fabbriche (Albini aveva lavorato per Krizia, Cadette, Trell, Cole of California, affiancando per un periodo anche un Karl Lagerfeld agli esordi, faceva moltissime consulenze, Santo Versace ne studiò dichiaratamente da vicino il modello prima di affiancare il fratello Gianni nel lancio del marchio). La quarta: l’intuizione che una prima linea forte e di immagine dovesse essere sostenuta economicamente da una seconda linea di “diffusione”. Albini morì a soli quarantadue anni di Aids, alla clinica Madonnina e state pur sicuri che se avesse potuto continuare la propria opera, la moda italiana sarebbe più forte di quanto sia attualmente, soprattutto dal punto di vista strategico.

 

Detto questo, non sarà facile rilanciarlo. Walter Albini rientra infatti nella categoria degli “sleeping brand”, i marchi dormienti che, come Schiaparelli o Worth o lo stesso Balmain, un abile avvocato francese piazzò in giro per il mondo nei primi Anni Duemila dopo averne acquisito la proprietà intellettuale. Ancorché fascinosi, gli sleeping brand onusti di storia portano in sé un doppio svantaggio imprenditoriale: sono infatti del tutto ignoti ai giovani, e dunque richiedono investimenti economici e di stile in linea con quelli di un lancio, ma sono molto noti agli storici e ai connaisseur, pronti a gridare allo scandalo ad ogni passo falso. Non è un caso che Diego Della Valle abbia profuso per quindici anni centinaia di milioni di euro in Schiaparelli prima di trovare stilista e progetto adatti con Daniel Roseberry, e non siamo ancora sicuri che Balmain abbia trovato la propria dimensione. Dunque, non è un caso che Rachid dichiari che “la vera sfida sarà trovare una squadra direttiva del giusto calibro”.

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