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Salvare il made in Italy

“Il mestiere dell'artigiano va difeso e ben pagato”. La ricetta di Brunello Cucinelli

Fabiana Giacomotti

“Ci facciamo belli con grandi discorsi sull’insostituibilità dell’artigianato italiano, ma poi a lavorare in questo campo vorremmo mandare i figli degli altri“. Dalla formazione alla condizioni di lavoro, fino ai salari. Intervista all'imprenditore della moda

Ogni anno l’associazione delle imprese del lusso Altagamma comunica quanti artigiani manchino al made in Italy, e ogni biennio li aumenta di circa centomila unità. Erano 236 mila nel 2020, lo scorso anno erano saliti a 346 mila. Con la nuova ondata di pensionamenti arriveremo presto al mezzo milione.

L’associazione delle imprese del lusso ha anche sviluppato un progetto nazionale con le scuole professionali per rendere l’artigianalità più attraente, “Adotta una scuola”, ben sapendo dove si trovi il punto debole del teorema, ma è evidente che si tratti di un, pur lodevole, palliativo. E che a questi ritmi, la scomparsa del made in Italy di eccellenza sia un pericolo concreto. La verità, dice al Foglio Brunello Cucinelli, “è che ci facciamo belli con grandi discorsi sull’insostituibilità dell’artigianato italiano, ma poi a fare gli artigiani vorremmo mandare i figli degli altri“ che è un po’ l’opposto, ma lungo la stessa – proterva – linea di pensiero, di Alessandro Manzoni quando, attorno alla metà dell’Ottocento, se la prendeva per lettera con Cristina Trivulzio di Belgiojoso che andava aprendo scuole per i figli dei contadini: chi arerà le nostre terre se tutti diventeranno letterati.

 

Quasi due secoli dopo, almeno in teoria, noi italiani siamo tutti diventati letterati. E adesso chi ara le terre della nostra nuova ricchezza, cioè l’artigianato di lusso per il quale le multinazionali vanno setacciando nomi, volti ed esperienze a scopo di ingaggio o acquisizione.

Bisogna pagare gli artigiani di più; anche più degli impiegati, se necessario, perché il loro è un mestiere che va difeso e sostenuto”, dice Cucinelli, insignito due giorni fa a Parigi (molta commozione, molte facce note del sistema, molte giacche di cashmere, moltissimi margaritas) del più importante premio mondiale della moda, il “Neiman Marcus Award for Distinguished Service in the Field of Fashion” che il department store del lusso di Dallas conferisce dagli anni Trenta del Novecento alle figure che hanno maggiormente influenzato la moda come Coco Chanel, Christian Dior, Valentino, Giorgio Armani, Miuccia Prada e Karl Lagerfeld.

 

Nel corso dell’ultima assemblea degli azionisti dell’impresa di Solomeo, lo scorso febbraio, Cucinelli ha proposto per i suoi artigiani, che ammontano a oltre la metà della forza lavoro, un aumento del venti per cento dei salari (a Solomeo non chiamateli stipendi). Racconta dell’applauso partito anche fra gli impiegati per ritocchi verso l’alto che porteranno il compenso mensile fino a 2.150 euro “con il quale a Perugia vivi piuttosto bene” e dell’incidenza molto limitata, “fino a un punto di Ebitda” di questa decisione.

Rifiuta, come ovvio, il paragone con altri gruppi e con la pressione psicologica micidiale a cui sono sottoposti da anni creativi e manager di altri gruppi per rispondere alle richieste di analisti e investitori schizofrenici, che da una parte vorrebbero salvaguardare il pianeta e chiedono alle aziende rispetto delle norme di sostenibilità (che significa produzione più mirata e revisione delle politiche commerciali, innanzitutto) e dall’altra impongono risultati trimestrali in aumento a “doppia cifra” (che significa non rispettare almeno in parte le norme di cui sopra). “L’altra sera a Parigi ne ho parlato con diversi colleghi”, osserva. “Credo sia un problema sentito da quasi tutti: dalle aziende ma anche da chi compra. Sta cambiando la mentalità: consumare meno, usare di più. Me ne accorgo perfino dall’atteggiamento dei miei nipoti, che è già diverso rispetto a quello della mia generazione. Sono più attenti alle persone, e anche alle cose”.

Cucinelli è uno dei pochi che agli analisti abbia imposto le proprie regole fin dal debutto in Borsa nel 2012, quando nei chiostri di sant’Eustorgio, chi scrive era presente, disse di non avere alcuna intenzione di spremere le forze di cui disponeva, e che anzi intendeva aumentare, solo per portare soldi agli azionisti. Nel linguaggio aulico di cui ha fatto la propria cifra, bisogna ammettere che ha sempre tenuto il punto. Adesso spera che tanti lo imitino, anche nella trasformazione delle fabbriche in luoghi gradevoli dove lavorare, “dove si possa cucire e produrre il bello osservando bellezza”. Sta approfondendo gli scritti di John Ruskin. Qualcosa ci dice che lo sentiremo presto parlare del movimento Arts and Crafts.
 

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