Le filatrici. Diego Velazquez, 1657. Madrid, Museo del Prado (da Wikipedia)

Il Foglio della moda - Fashion discourse

L'abito della salvezza

Maria Giuseppina Muzzarelli

L’economia circolare è intuizione dei Frati minori francescani, che alla fine del Quattrocento istituirono i Monti di Pietà: era micro-credito, dava valore anche al più infimo dei guardaroba

Pubblichiamo un abstract del saggio “Una seconda chance per le persone e per le cose. I pegni consegnati ai Monti di Pietà alla fine del Medio Evo” che sarà pubblicato presso l’Universitat de Valencia nel 2022 a cura dello storico Juan Vicente Garcìa Marsilla.

 

Rendere i prodotti quanto più possibile duraturi ed efficienti e di conseguenza ridurre i rifiuti, valorizzando anche beni in apparenza non più fruibili è il principio alla base della teoria dell’economia circolare, che si contrappone a quella lineare dell’usa e getta. Quello che vale per le cose ancor di più dovrebbe valere per le persone: offrire a chi si trova in difficoltà un’altra chance significa ridurre gli scarti.

Questo richiama i principi di un’istituzione ideata e sperimentata nell’ultimo Medioevo: il Monte di Pietà. Il primo Monte venne fondato a Perugia nel 1462, con l’idea di offrire una boa di salvataggio a quanti, poveri ma non poverissimi, avevano bisogno di credito. Il rischio che correvano era infatti quello di precipitare nella miseria, il che avrebbe fatto di loro delle persone inattive da assistere. Si trattava di evitare che i cosiddetti “pauperes pinguiores”, così definiti nel XV secolo da Annio da Viterbo, venissero “dismessi”, abbandonati, esclusi dalla vita sociale ed economica come “prodotti” non più utilizzabili.

Il campo nel quale si svolse l’operazione di salvataggio dei poveri meno poveri fu quello creditizio animato però da un’inedita intenzione, quella di utilizzare il credito per assicurare una forma sui generis di assistenza. Nel secondo Quattrocento operavano nel settore creditizio i mercanti-cambiatori e più diffusamente, ma non ufficialmente, tutti coloro che avevano un po’ di denaro da prestare: esercitavano questa attività a condizioni che rischiavano di rendere più poveri quanti già si trovavano in difficoltà. Gli alti tassi di interesse richiesti potevano infatti essere affrontati da chi necessitava di credito di impresa, ma risultavano rovinosi per chi aveva bisogno di piccolo credito di consumo. Dalla seconda metà del XIII secolo presero a far fronte alle necessità anche minute di anticipazione di denaro i prestatori ebrei chiamati dalle autorità cittadine a risolvere il bisogno di credito. Ne nacque l’esperienza del prestito convenzionato che introdusse denaro liquido nelle città, regolarizzò il credito e calmierò il costo del denaro che tuttavia restava elevato. Era però talmente elevato, ancorchè di mercato, che le stesse autorità cittadine pensarono di chiedere ai prestatori ebrei di aprire un canale di prestito a condizioni particolarmente favorevoli per sostenere i poveri meno poveri. Si trattava cioè di destinare una certa quantità del denaro che i banchieri erano disposti a prestare a clienti che non potevano permettersi tassi più elevati dell’8 per cento circa.

Restava però la difficoltà di realizzarlo senza dover far ricorso ai prestatori ebrei: dove trovare i denari necessari? Come organizzare l’attività e a quali condizioni offrire il denaro a prestito senza essere accusati di “usuraria pravità” ma anche senza esaurire le risorse faticosamente raccolte? I Minori Osservanti intervennero presentando la proposta di creare un Monte nelle città nel corso di prediche che illustravano l’idea, proponevano come affrontare le insidie e suggerivano linee operative concrete. Uno degli scogli era la formazione del capitale iniziale, per cui i predicatori si mobilitarono per invitare le autorità e la cittadinanza a offrire risorse per costituire il monte di risorse da destinare allo scopo. I migliori predicatori dell’Osservanza francescana si misero al lavoro e con prediche ripetute ed efficaci riuscirono nell’intento in moltissime città: dal 1462 i Monti Pii iniziarono a operare soprattutto nell’Italia centrale per poi diffondersi un po’ ovunque.

 

Per statuto il Monte Pio destinava il denaro a una specifica categoria di clienti, i poveri meno poveri, che potevano ricevere solo somme di piccola entità e solo per necessità e non per “giocare” o per “mercatare”. Le somme andavano restituite in dodici-quindici mesi, e per ottenerle occorreva offrire un pegno che valesse almeno un terzo di più della somma anticipabile. Era richiesto, ma non da tutti,  un rimborso delle spese pari al cinque per cento di quanto ricevuto. Grazie a questo nuovo strumento creditizio, uomini e donne in difficoltà rientravano nel circuito della vita sociale ed economica e cose di casa, da un paiolo a un lenzuolo, da un abito a un piccolo gioiello, entravano in circolazione a garanzia della restituzione del prestito e, se non recuperati dai proprietari, andavano all’asta.

Questo genere di operazioni offrono a noi la chance di conoscere tipologia e valore dei pegni, l’identità dei loro possessori e di immaginare qualche scampolo di vita sociale dell’epoca. A dichiarare aspetto e valore di abiti comuni ci sono tipologie di fonti scritte come le doti, i testamenti o l’attestazione di capi donati o assegnati in forma di pagamento. Ma per i capi delle famiglie più modeste, una delle poche testimonianze fruibili è costituita proprio dagli elenchi di pegni accolti dai Monti Pii.

I beni posseduti da questo genere di persone non sono facilmente immaginabili almeno fino al XVII secolo, quando i pittori hanno cominciato a riprodurre nei loro dipinti anche cose semplici. Così le liste dei pegni ci introducono in contesti di scarsità dove abiti usati, consumati e bucati avevano ancora valore e dove la vita dei capi di abbigliamento era davvero lunga. In queste disadorne dimore una gamurra femminile, magari appartenuta prima ad altri, era spesso l’unico bene che, impegnato, consentiva di far fronte a spese inattese. L’oggetto che aveva rappresentato per la donna di casa il desiderio di apparire curata, se non elegante, diventava per la famiglia un’ancora di salvezza: sul suo corpo si esibivano i segni del privilegio famigliare e dal suo corpo, nei momenti di bisogno, venivano sottratti gli oggetti. Questo valeva anche per famiglie di medie condizioni.

Lesandra, figlia di Alessandra Macinghi Strozzi (1408-1471) donna di elevato ambiente fiorentino ancorchè vedova d’esule, possedeva una sola gamurra  e “quando ha bisogno di ricucire la gamurra si mette la cioppa in sulla camicia tanto che l’è racconcia”. Privarsi della gamurra  (un abito importante, lungo fino ai piedi, spesso foderato di pelliccia, ndr) per consegnarla in pegno, significava dunque ridurre all’osso il proprio guardaroba: qualche camicia, una veste da sotto, un mantello e poco altro.

 

Una serie di capi consegnati al Monte di Urbino, fondato nel 1468, ed elencati in un registro risalente al periodo che va dal 2 maggio 1492 al 2 aprile 1493, comprendono appunto gamurre, descritte come turchine o celesti, con maniche di rosato e balza verde (questa sembra essere la combinazione più in voga in città alla fine del Quattrocento). A determinare la differenza di valore poteva essere la qualità e la quantità del tessuto, ma anche gli ornamenti e soprattutto lo stato di conservazione. L’età del capo lo deprezzava fino a farlo valere 10 bolognini che è il minimo anticipato a fronte di una gamurra. Fra i capi di abbigliamento segnati sui registri del Monte di Prato, la categoria più rappresentata è quella delle cioppe seguita dalle gamurre, dai mantelli, dai gonnellini e dalle cinture più altri non meglio definiti capi di vestiario. La cioppa era capo sia maschile sia femminile ed era “la roba per di sopra” più diffusa in ogni ambiente sociale. Poiché non si potevano prestare più di 6 fiorini, per ottenere più denaro a fronte di oggetti che valevano parecchio si poteva ricorrere all’escamotage di far compiere a due distinte persone due diverse operazioni relative ognuna a mezza veste. Non sempre le aste seguite al mancato riscatto di una veste avevano successo. L’invenduto era infatti la stragrande maggioranza (da cui si evince lo scopo eminentemente solidaristico della norma, ndr).

All’asta del Monte di Perugia si scopre che andarono molti libri e questo non è un dato comune: su 135 pegni, venti sono costituiti da volumi. Un tris trova un acquirente che offre un fiorino e 25 soldi per “uno libro chiamato Vergilio e uno libro chiamato Tulio de Offitiis e uno Dotternale”. Mediamente i libri valevano più delle gamurre e delle giornee e dei vestiti in generale con alcune eccezioni, per abiti di tessuti pregiati.

Stante il basso valore degli oggetti che si potevano offrire come pegno, era frequente un po’ in tutti i Monti ricevere contemporaneamente dallo stesso cliente più oggetti che consentivano di superare le 2 lire di credito e in questi casi una camicia o una collana entravano regolarmente a far parte dell’insieme di oggetti consegnati. Dalla consistente presenza di capi di abbigliamento fra gli oggetti offerti in pegno si ricava una conferma dell’importanza degli abiti che erano fra i pochi beni presenti nelle case dei meno abbienti e quindi utilizzabili anche come riserva in caso di necessità. Anche oggetti di valore non elevato quando non addirittura molto basso risultano spesso presentati dentro a un involucro, segno di cura ma anche di vergogna o di ricercata dignità: avvolti in un pannuccio di lino, in un pannicello o in un “mucichino”, cioè un fazzoletto, l’involucro più frequente, o in un “pocho de tafetà nero” ma anche infilati in una sacchetta vecchia e rotta o in una “coverta de guancial”.

I più ricchi fra i “pauperes pinguiores” offrono in pegno gamurre di diverso tessuto, differente foggia e con vari ornamenti. Valeva 4 fiorini, per esempio, un anello d’oro con una corniola con una testa intagliata, una tazza d’argento del peso di 8 once, una cintura vellutata nera con fibbia, puntale e una scritta verosimilmente ricamata “virtus omnia vincit” presentata avvolta “in uno mucichino”. Grazie al Monte tanto gli uomini e le donne come le loro cose, e in particolare i loro abiti, hanno avuto la possibilità di resistere alle avversità, di affrontarle e in qualche caso di superarle. Ad essere ancora attuale e dunque riproponibile sono sia le posizioni teoriche sia le prassi che si richiamano, in questo caso in campo creditizio, al riutilizzo e al riciclo di beni ma soprattutto al sostegno di uomini e donne a rischio di essere scartati che invece, se si tende loro una mano, possono evitare di inabissarsi.

 

Maria Giuseppina Muzzarelli
Medievista, Professore di Storia Medievale e Storia e Patrimonio culturale della Moda presso l’Università di Bologna. Già vicepresidente della Regione Emilia Romagna. Ha presieduto il corso di laurea in “Culture e tecniche del costume e della moda”, sede di Rimini. I suoi testi sui guardaroba medievali e sull’uso del velo nella società occidentale sono stati tradotti in più lingue

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