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Il Met Gala 2021 è la passerella dell'orgoglio americano

Il diktat dell'inclusività, la ribalta degli sportivi olimipici e il nuovo equilibrio tra celebrities e tiktoker. Cronaca della serata della moda più importante in America

Fabiana Giacomotti

Met Gala 2021, diretta online: mezzo mondo collegato in piena notte. Per la prima volta nella sua storia pluridecennale non avviene il primo lunedì di maggio ma, causa Covid, il secondo di settembre, dopo un salto di un anno e mezzo con mostra double bill, doppio biglietto e due momenti dal 18 settembre alla prossima primavera. Il tema è l’abito come espressione dell’orgoglio americano che, dopo la figuraccia planetaria sulla gestione del ritiro dall’Afghanistan, è diventato più che identitario.

 

 

In esposizione, sotto teche mirate in tutta evidenza a valorizzare i capi fin troppo spesso poveri di idee e di materiali, molti abiti di stilisti americani di prima e seconda generazione: molto quilt, cioè pezze variopinte cucite assieme, in ovvia ispirazione al discorso del 1988 del reverendo Jesse Jackson sull’America “che non è una coperta fatta di un unico pezzo di tessuto ma un quilt di tanti riquadri diversi cuciti insieme”, molto sportswear come logico, qualche tocco borghese in versione abiti rosa a palloncino, per dodici sezioni che ruotano attorno al tema dei sentimenti e delle emozioni.

 

Quello che si vede online ci dice che in fatto di moda, l’America continua ad aver bisogno della vecchia Europa – fatto che si notava molto anche alle sfilate di New York di questi giorni e anche ieri sera, piena di abiti Valentino che sta risalendo le classifiche del gradimento under 30 – e che il clima generale vira verso un mondo da e per i giovanissimi. Il cambio di passo più evidente della serata era quello più spedito degli ospiti. Ad esclusione di Debbie Harris e Iman, tutte e due nella declinazione cosplay più intelligente del tema, l’età media si sarebbe potuta calcolare in 27 anni. Co-host della serata la tennista Naomi Osaka uscita dalle stampe nipponiche teatrali primi Novecento; Timothée Chalamet di ritorno da Venezia in giacca, trainer e Converse bianche; Amanda Gorman in versione poet laureate con coroncina di foglie di lauro d’argento e abito blu elettrico che raccontava di ispirarsi alla statua della Libertà, beata lei; Billie Eilish in meringa di tulle che a gentile domanda diceva di aver preso ispirazione dalla Barbie Celebration mentre a Keke Palmer che l’intervistava tremavano visibilmente le mani perché Barbie è icona “divisiva”, troppo bella e con quelle tette innaturali, mentre il diktat di questa edizione era l’inclusività più totale e spinta possibile. L’America ha già perso abbastanza appeal come guardiana del mondo perché vi sia bisogno di sottolinearlo anche a una serata di beneficenza.

 

L’altro dato evidente era la scomparsa pressoché totale della sezione “attrici del cinematografo” a favore di quella “sportivi olimpici”, a partire da Nia Dennis che ha aperto la serata lì, sulla scalinata, compiendo un esercizio di volteggio in tuta di paillettes blu elettrico mentre la banda di Brooklyn suonava una versione abbastanza fuori tempo di “Only in New York”. Il tono della serata era dato e, va detto, è stato rispettato quasi sempre: freaks out meets college.

 

Molti strascichi (lunghissimo quello di J.Lo, anche lei in arrivo da Venezia e come sempre scollatissima e scosciatissima: tutta quella ginnastica va pur valorizzata), molte frange da cowboy, in genere gran brutti vestiti, fin troppi costumi. I giornali amici di Anna Wintour, a cui è intitolata da anni la sezione costume del Metropolitan, avevano già messo le mani avanti da giorni, avvertendo che se le Olimpiadi, la serata degli Oscar e perfino il Super Bowl avevano attratto un numero inferiore di celebrities rispetto a un tempo, cioè ai tempi pre-Covid, come avrebbe potuto “Anna” aspettarsi di eguagliare e superare questi momenti di celebrazione-della-celebrità con il suo Met Gala?

 

Sul New York Post, una firma anonima aveva raccontato una realtà un po’ diversa, e cioè che l’evento avrebbe già “lost its lustre”, uno dei tanti luoghi comuni che gli americani adorano insieme con la ripetizione ossessiva di “amazing” per qualunque iniziativa, oggetto, atteggiamento superi il livello della più trita banalità. In particolare, suggeriva la stessa fonte, le “vere” celebrity avrebbero snobbato l’evento, sponsorizzato da Instagram, per non rischiare di trovarsi seduti accanto a una massa di tiktoker con l’ansia della story da postare, che a ben vedere è un’altra considerazione da sbadiglio, se si considera che Hollywood non produce megastar da un pezzo, e che la moda deve rivolgersi altrove per “ingaggiare” come si dice un gergo, i suoi clienti, quasi tutti attaccati allo smartphone h24 dove, peraltro, comprano vestiti. Dunque sì, c’erano molti tiktoker e un paio di atleti che raccontavano di essere stati invitati la settimana precedente e aver dovuto rimediare un abito lì per lì, con la candida serenità degli americani per questo genere di gaffe. Noi, per tutto il tempo, abbiamo invece osservato con angoscia il microfono di Keke Palmer che rimbalzava qui e lì dalle labbra di un ospite all’altro, senza disinfezione. Con la mascherina erano solo le hostess.

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