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Guerra del cuoio. Ovvero: l'economia circolare senza retorica

Fabiana Giacomotti

Smontare le battaglie vegan e animaliste nella moda mettendo a nudo gli argomenti vuoti. Parla Antonio Quirici

Dire che la battaglia dell’ecopelle alla Camera è stata lunga e cruenta suona grottesco, dopotutto “ecopelle” è una bella crasi, un derivato semantico che evoca mondi bucolici, sensibilità per gli animali e belle signore in pashmina (ah, non è sostenibile?) oltre alla mai dimenticata Greta Thunberg, si intende. Invece ecopelle è plastica nei casi peggiori che sono poi quelli più diffusi, un derivato da spore o da coltura bio nei casi migliori, cioè ecologici davvero e però purtroppo ancora molto costosi, e insomma dopo un discreto esborso in lobbying e un sacco di mali di pancia, gli imprenditori italiani di calzature, borse e affini riuniti in Unic sono riusciti qualche settimana fa a bandirne la dicitura. La battaglia in sede comunitaria e nel cuore dei consumatori europei si preannuncia più dura, ma un primo paletto è stato piantato. “Sostenibilità è anche chiamare le cose con il loro nome”, dice il presidente del Consorzio Cuoio di Toscana, Antonio Quirici, sette aziende per oltre duecento dipendenti fra San Miniato e Santa Croce, equivalenti a una quota del 98 per cento del mercato italiano e dell’80 per cento di quello europeo e a una practice, per dirla all’americana, che risale a tempi medievali, cioè a tempi antecedenti all’arrivo di Cristoforo Colombo a Watling e all’attuale esigenza americana di abbatterne la statua.

 

Immaginario, desiderio e acquisto si nutrono di immagine, e la nozione di “vegan leather” suona meglio, qualunque cosa significhi, rispetto a “spoglia di animale”.Invece, cuoio e pelle quello sono, e nel caso specifico del cuoio si tratta di una materia interamente sostenibile e riciclabile, dal primo all’ultimo passaggio. “Se dovessi immaginare un’applicazione del concetto di economia circolare non potrei che pensare a noi”, dice Quirici che in quest’ultimo mese ha visto riprendere il lavoro dopo un lockdown che per quanto riguarda le aziende consorziate si è limitato al minimo indispensabile, proprio a causa della deperibilità della materia prima e alla naturalità delle fasi di lavorazione che, per gli spazi e i tempi previsti, non pongono in realtà problemi di distanziamento. Il processo di realizzazione del cuoio “non in tutto il mondo, ma per noi sì” è ancora quello dei calzari e delle caligae romane che spuntano dagli scavi e che sono conservate nei musei d’Europa. Certo, si potrebbero non macellare più animali, non mangiare più carne and the world will be as one, ma per smontare le battaglie vegan e animaliste contro le scarpe e le borse in pelle e cuoio con i loro stessi argomenti, le suole utilizzano scarti dell’industria alimentare che vengono riportati a nuova vita e “nessun animale viene ucciso al solo scopo di utilizzarne la pelle”.

 

Non solo: il cuoio sottrae al ciclo dei rifiuti una materia organica ricca di proteine e grassi (come il collagene, i peptidi e le gelatine di scarto) che possono ancora essere utilizzate nell’industria alimentare, farmaceutica e nutraceutica, mentre il carniccio dalla scarnatura, rasature, rifili, e fanghi, dopo un trattamento a base di idrolisi, diventano una fonte di nutrienti e ammendanti impiegati come fertilizzanti e biostimolanti per l’agricoltura e additivi e ritardanti per l’edilizia. Le acque di scarico che derivano dal processo industriale vengono convogliate a depuratori centralizzati del territorio per essere depurate prima di essere immesse in fiumi e canali. Dice Quirici che “il pellame proviene da allevamenti non intensivi e metodi di macellazione cruelty free”: finora non abbiamo avuto modo di verificarlo personalmente, ma tendiamo a credere che potremmo farlo e che il presidente del Consorzio non verrebbe smentito. Idem sui metodi di lavorazione, che invece abbiamo visto di persona più volte e con un filo d’ansia, essendo per l’appunto vegane, e che invece non ci hanno provocato alcuna reazione negativa. Al contrario: la concia lenta al vegetale, basata sui tannini estratti dalla corteccia di castagno, mimosa e quebracho, oltre a promuovere un’azione batteriostatica non ha nemmeno un odore sgradevole.

 

Quello è il derivato della concia veloce che utilizza prodotti chimici come la formaldeide (che conserva meno di quanto si creda, come hanno avuto modo di verificare con orrore i collezionisti di Damien Hirst), metalli come il cromo, e materia prima di cattiva qualità. Un odore dolciastro e nauseabondo che si sente, disgraziatamente per lo storytelling nazionale sull’artigianato con la A maiuscola e il famoso Made in Italy, anche al mercatino attorno alla chiesa di Santa Croce, a Firenze. Roba importata dall’India, dalla Cina, spacciata come prodotto locale, di cui giustamente Quirici non vuole parlare. “Il vero cuoio italiano “sa di bosco””, dice Quirici che, basandosi sulla tradizione della profumeria maschile di lusso, ha lanciato da poco una versione per così dire consortile-toscana della celebre essenza Cuir de Russie, balsamica, che si ritrova in tutta la letteratura di fine Ottocento. Dare “profumo”, anima e cuore a un mestiere tradizionalmente sottovalutato, e non da oggi, è parte integrante di questa strategia, che dopo qualche anno di orientamento sul parallelismo fonetico e semantico fra suola e anima della calzatura (sole-soul in inglese), si è trasferito sul concetto di “cuore” e “arte”: heart e art. Ne è nata una campagna multisoggetto mondiale, “Step into our world”, sviluppata con l’agenzia Kitchen Stories, che reinterpreta in forma simbolico-surreale immagini di cuoio e di territorio. Dovrebbe esserne contenta anche la provincia di Pisa.

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