Harvard University. Foto di Will Hart via Flickr

La guerra di Edward Blum contro il regime dei diritti delle università

L’attivista e stratega conservatore combatte per i diritti delle minoranze e ha trovato la via più sagace per aggredire Harvard

L’attivista e stratega conservatore Edward Blum, che da anni lotta contro il sistema di quote per le minoranze etniche nelle ammissioni alle università americane, ha trovato la via più sagace per aggredire Harvard con una delle sue cause: non dice che il sistema di agevolazioni per le minoranze danneggia i bianchi, secondo lo schema classico, ma sostiene che il prestigioso ateneo del Massachusetts discrimina gli asiatici-americani, che hanno in percentuale possibilità enormemente inferiori di essere ammessi all’università rispetto a quelle concesse ad afroamericani e ispanici. Una faccenda complicata nell’epoca delle “microaggressioni” e del “razzismo implicito” per un’istituzione che si fregia di essere all’avanguardia nella tutela delle minoranze.

 

L’associazione di Blum, Student for Fair Admissions, ente che permette ai ricorrenti di rimanere anonimi, sostiene che Harvard discrimina gli americani di origine asiatica con la stessa scientifica precisioni con cui limitava le iscrizioni degli ebrei prima della Seconda guerra mondiale, temendo che questi studenti spesso molto dotati avrebbero preso il sopravvento se giudicati sulla base del puro merito. L’accusa non è di poco conto: l’università, sostiene Blum, viola il titolo VI del Civil Rights Act del 1964, che impone a tutte le istituzioni che godono di fondi federali di non discriminare sulla base dell’etnia. Il che significa che lo strumento utilizzato per integrare le minoranze nel mercato del lavoro e nell’educazione, correggendo le disuguaglianze del passato, è diventato uno strumento di discriminazione. L’epopea di John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson si rivolta contro se stessa? Possibile? Uno studio, allegato al fascicolo dell’accusa e condotto da Peter Arcidiacono, economista della Duke University, spiega che gli asiatici-americani maschi senza una condizione economica svantaggiata hanno il 25 per cento di possibilità di essere ammessi e, a parità di punteggi nei test, la probabilità salirebbe a 36 per cento se fossero bianchi, al 77 per cento se fossero ispanici e al 95 per cento se fossero neri. Gli asiatici-americani che fanno domanda ad Harvard sono statisticamente i migliori dal punto di vista delle performance. Sono eccellenti nei test standardizzati, hanno medie da capogiro, vengono da scuole ultraqualificate e sopportano carichi di lavoro sopra la media; poiché Harvard si riserva il diritto di dare la precedenza a candidati che hanno una “personalità positiva”, Rick Lowry, direttore della National Review, ha logicamente ipotizzato che questi eccellenti studenti abbiano “personalità irrimediabilmente negative”.

 

Come tutti gli altri studenti di Harvard, gli americani di origine asiatica godono del diritto di essere riconosciuti con il pronome che preferiscono, di usare bagni genderless, non possono essere microaggrediti senza gravi pene per chi ne lede la dignità, hanno diritto a non leggere libri di testo che giudicano offensivi e a usufruire dei “safe space” che l’ateneo mette a loro disposizione, ma la cosa incredibilmente ardua è essere ammessi. Ed è notevole che proprio il sistema di selezione di Harvard sia stato il modello usato dalla Corte suprema per emettere sentenze contro la posizione incarnata da Blum. La presidentesse uscente di Harvard, Drew Gilpin Faust, ha scritto alla comunità universitaria che “le accuse si avvalgono di dati fuorvianti presentati in modo selettivo” per promuovere una “agenda divisiva”, ma già la Princeton Review e altre riviste accademiche indipendenti hanno notato che i candidati con un cognome riconoscibile come asiatico “sono svantaggiati”. Così Blum porta avanti la battaglia per i loro diritti, contro la cultura dei diritti.

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