Il sottotesto altruista del racconto virale in prima persona. Una crepa nella dittatura dell'introflessione

La dittatura della prima persona ha un suo genere giornalistico di riferimento. Non è il classico new journalism, dove l’autore, nell’immergersi in una storia, fa capolino; e non è nemmeno il suo gemello narcisistico e degenerato, il gonzo, dove le digressioni egoriferite prendono il sopravvento sul tema principale. Si tratta di una forma di introflessione ancora differente, è il racconto di se stessi senza vergogna, il diario segreto di una volta sbattuto in rete con nomi e cognomi veri, come impone la netiquette, ma soltanto se gli episodi ivi raccontati sono abbastanza scioccanti da favorire lo sviluppo del traffico, se non una diffusione virale. La ragazza che finisce in una relazione carnale con il padre naturale, e si sente in colpa fino a un certo punto.

 

Il ragazzo che muore mentre la fidanzata ha una storia con un altro. Quella che ha perdonato il suo stupratore, quella che vive con la persona che abusa di lui, il manuale per diventare un suprematista della razza bianca, il racconto del fascino intimo della jihad. E’ una deviazione del memoir, l’autobiografia, verso il morboso e il sensazionale, e ha la peculiarità di essere praticata per la maggior parte da autori sconosciuti, desiderosi di farsi un nome scrivendo dell’argomento che conoscono meglio, loro stessi. Molte pubblicazioni mainstream, dal New York Times al Washington Post, hanno sezioni dedicate ai racconti in prima persona; altri giornali, come Gawker, Vice e Jezebel, hanno eletto il genere a parte fondamentale del loro core business.

 

Molta sociologia di genere internettiano e millennial è stata fatta intorno a fenomeni di questi tipo, riflettendo sulla dimensione dell’“oversharing”, l’eccesso di condivisione a cui i meccanismi della rete quasi inevitabilmente conducono, o alla perdita di “un sano senso di compartimentalizzazione”, come dice la sociologa Sherry Turkle. Alcuni ricercatori di Harvard garantiscono che la condivisione di vicende e pensieri personali scatena nel lettore tempeste neurochimiche che nessun racconto in terza persona può eguagliare. Un’inchiesta di Laura Bennett apparsa su Slate aggiunge un elemento che solitamente sfugge nel meta-racconto dell’egotismo di una generazione: i produttori di storie scioccanti in prima persona sono spinti a condividerle per mettere in guardia gli altri dai pericoli che hanno corso, per evitare che gli errori commessi siano ripetuti.

 

E’ la morale, non l’esibizione, lo scopo recondito del racconto di sé, una forma di altruismo egoista che – e non è strano, a ben vedere – ha come prime vittime gli autori stessi. Gli scrittori di torbide storie personali sono i primi a soffrire della notorietà delle loro stesse vicende, e molti fra questi dopo la prima, virale storia, non riescono più ad andare avanti, sono soverchiati emotivamente dalle reazioni, dagli altri, dai social, dal peso della realtà. Emily Gould, capostipite del genere con un racconto apparso sul New York Times Magazine sette anni fa, da allora fa una tremenda fatica a parlare di sé, ha un blocco della prima persona. Ma quasi tutti gli scrittori introflessi intervistati da Slate lo rifarebbero.

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