Marisa Bruni Tedeschi con la figlia Valeria al Festival di Cannes. “Mes chères filles, je vais vous raconter” è il titolo della sua autobiografia uscita in Francia

Un selfie con la mia vita

Marianna Rizzini
Scriversi l’autobiografia. E chi ne ha voglia, oggi? E invece. Invece la scrittura di memorie è diventata genere di moda, a giudicare dalle uscite continue di diari totali e parziali. Santanchè, Bruni Tedeschi, Schillaci, Maionchi. Dilaga la moda dell’autobiografia come un’istantanea.

“A quando risalgono i nostri primi ricordi? Quando comincia una mente infantile a essere rischiarata dagli incerti lumi della coscienza? I miei primi ricordi sono irlandesi”
(Winston Churchill, “Gli anni della mia giovinezza”)

 

Non si può certo essere tutti autobiografi alla maniera di Winston Churchill, che con le sue memorie pre e post Seconda guerra mondiale ha riempito una quindicina di volumi, non lesinando freddure inglesi ma mantenendo l’aplomb da ex premier, storico, giornalista, terzogenito del duca di Marlborough, e, ultimo ma non ultimo, ex bambino geniale ma somaro in latino, greco e matematica (fino all’ingresso all’accademia militare di Sandhurst). Un bambino che, una volta compiuti i sessant’anni, scrisse in uno dei suoi diari l’indimenticabile frase “avrei preferito fare l’apprendista muratore o il fattorino, oppure aiutare mio padre a installare la vetrina di una drogheria. Sarebbe stata vera vita…”. Né tutti possono vantare (come lui) l’esperienza nel Quarto Ussari, il viaggio a Cuba nel bel mezzo di una ribellione antispagnola, gli anni di noia in India, le avventure in terra boera, le imprese da ammiraglio e parlamentare e ministro e primo ministro e marito della mitologica lady scozzese Clementine, madre dei suoi cinque figli. E forse gli autobiografi giornalistico-politici successivi, in mente loro, lo sapevano, mentre scrivevano le loro memorie, che c’era sopra di loro quel Churchill, esempio inarrivabile e svettante. Magari anche Henry Kissinger, del quale però, più che l’autobiografia (“Gli anni della Casa Bianca”), ai profani torna spesso in mente la descrizione fulminante che fece Oriana Fallaci dopo averlo intervistato: “… quest’uomo troppo famoso, troppo importante, troppo fortunato… questo personaggio incredibile, inspiegabile, in fondo assurdo, che s’incontrava con Mao Zedong quando voleva, entrava nel Cremlino quando ne aveva voglia, svegliava il presidente degli Stati Uniti e poi entrava in camera quando lo riteneva opportuno… questo cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un’invenzione priva di pepe…”.

 

Scriversi l’autobiografia. E chi ne ha voglia, oggi? (Oggi che in giro, nel bene e nel male, si vedono ben pochi Winston Churchill e Henry Kissinger e Christopher Hitchens, il giornalista, scrittore e polemista morto nel 2011 e autore del formidabile libro di memorie “Hitch 22”). E invece. Invece la scrittura di memorie è diventata genere di moda, a giudicare dalle uscite continue di diari totali e parziali – vuoi perché la fiction non è alla portata di qualsiasi penna vuoi per la curiosità scandalistica del lettore vuoi per l’ansia da “selfie” dell’autore, trasferita dal cellulare alla pagina. Perché questo pare oggi il racconto di se stessi: un autoscatto che in fondo fotografa il qui e ora, la vita vissuta fino a questo momento ma con il filtro di un presente da cui non ci si vuole per niente ritirare. Ne discende che l’autobiografia può essere scritta da chiunque (comuni mortali magari anche famosi, anche se non necessariamente di categoria “mito vivente”). E non è contemplativo, il libro diaristico, ma combattente (per rimettere a posto i conti col passato, per liberarsi di un peso, per dimostrare quanto è bello essere come si è). Vai in libreria o su internet, e sotto agli occhi ti appaiono le memorie di Daniela Santanchè (“Sono una Donna, sono la Santa”, ed. Mondadori); di Marisa Bruni Tedeschi (ottantaseienne madre delle celebri Carla e Valeria e autrice di “Mes chères filles, je vais vous raconter”, ed. Laffont, non ancora uscito in versione italiana), di Mara Maionchi e del marito Alberto Salerno (“Il primo anno va male, tutti gli altri sempre peggio”, ed. Baldini e Castoldi) e di Totò Schillaci, ex stella del calcio ora autore di “Il gol è tutto” (ed. Piemme), diario di vita privata e pubblica, con rivelazioni anche trash sulla storia con l’ex moglie (tradimenti e controtradimenti) e con racconti da figlio coraggio (e povero) della Palermo anni Novanta, che frequenta cattive compagnie ma grazie al pallone trova la sua strada.

 


Winston Churchill


 

Narrano e narrano, gli autobiografi odierni, ma nelle loro memorie non c’è traccia di distacco onirico alla Gabriel García Márquez, che nel 2002, in “Vivere per raccontarla” (ed. Mondadori), scrive della sua vita, che per lui non è “quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”, come elemento indistinguibile dalla materia di cui sono fatti i suoi romanzi. E il “realismo magico” è nella rilettura della sua storia con la lente dei libri già scritti: in “Vivere per raccontarla” c’è la nonna Tranquilina, narratrice di storie che sembrano false ma forse sono vere e dunque risultano perfette come canovaccio per l’immaginaria epopea dei Buendía a Macondo; c’è la sorella che mangia la terra come la Rebeca di “Cent’anni di solitudine”, e c’è tutto un mondo di “ingegneri gringos che navigavano su imbarcazioni di gomma in mezzo a materassi annegati e mucche morte”. Tutto vero ma anche non vero, ché la fantasia aveva già trasformato il vero nel romanzo più famoso dello scrittore. E di sicuro Santanchè, Schillaci, Bruni Tedeschi e la coppia Maionchi-Salerno, tutti autobiografi istantanei (modello selfie), non fanno del realismo magico. Né scrivono, come Aldo Busi, una “autobiografia non autorizzata” (“Vacche amiche”, ed. Marsilio), libro che nel risvolto di copertina promette “lo smascheramento spietato dell’imperfetta menzogna coltivata per tutta una vita da personaggi della piccola, media e grande borghesia…”, ma che nelle sue pagine spiattella frasi di imperfetta e fulminante verità come: “Dicono che la solitudine sia una scelta di vita: balle. Balle più una rottura di palle”. O come: “… non mi sono certo sbagliato tempo fa quando, alla domanda ‘che cos’è per lei la felicità?’ ho risposto che non avrei saputo dire cosa fosse, ma sicuramente era uno stato di moto a luogo con sosta brevissima”.

 

Ferocia e autoferocia sono assenti nell’autobiografia-selfie, dove l’autoritratto non soltanto è “autorizzato” ma anche cangiante (“c’è tempo per l’autobiografia tradizionale”, dice Santanchè, nell’introduzione del diario militante di una donna dal “cuore sensibile”, così scrive, ma con “corazza da pitonessa”). Una che, nella lotta contro il burqua e per i diritti delle giovani musulmane, si fa rompere due costole e fieramente condannare in tribunale in nome della libertà. Parla di sé come di un’amazzone in tacchi a spillo, Daniela, passando in rassegna l’infanzia da ragazza piemontese ribelle con padre severo – quasi una Lady Oscar del cuneese (“il buon padre voleva un maschietto”, diceva la sigla del famoso cartone animato, e qui non siamo molto distanti). Si apprende che Daniela a tredici anni, intrepida, non esitò ad autoimporsi un intero mese estivo a raccogliere fragole pur di strappare il permesso paterno ad andare in vacanza-studio a Londra – e da Londra la ragazza tornò con i capelli rossi, motivo per cui partì lo schiaffo del genitore. E dunque per tutta l’adolescenza fu guerra, ma guerra da ringraziare, dice Daniela, ché il carattere si tempra solo così, anche se poi, da adulte, si potrà ben sferruzzare a maglia senza complessi sul treno superveloce, alla faccia del passeggero esterrefatto, perché Santanchè è una che combatte come un uomo, ma non si vergogna di essere donna-donna (e in casa anche geisha, dice). E le pagine svelano il perché e il percome Daniela sia diventata altro “dalle false femministe dalla penna rossa” e diversa tout court, figlia com’è di un giocatore d’azzardo e di una madre indurita dalla vita, ma pure nipote di una nonna “bellissima e crudele” e di uno zio arruolatosi nella Legione straniera per sfuggire alla famiglia (e d’un tratto la rimembranza si fa salgariana, tra zanne di elefante e pinne di squalo).

 

Ma questo è niente in confronto alla parte politica dello scritto, in cui si narra come Daniela sia diventata “anarchica di destra” e pr dell’ex marito chirurgo plastico, di cui ha voluto portare il nome in quanto inventrice di un “brand” (ed è a questo punto che l’autrice si paragona addirittura al Conte di Montecristo in lotta per l’identità). Si apprende infine come Santanchè, nei nostri giorni, si sia fatta paladina del “no” all’utero in affitto, con tanto di biasimo a Elton John e di plauso ai meno “arcobaleno” Dolce e Gabbana.  Ed è chiaro che, dopo un simile grido di battaglia (lungo tutto il libro), solo l’autobiografia di Marisa Bruni Tedeschi, rarefatta come un pomeriggio nella tenuta Bruni Tedeschi a Castagneto, può far tirare al lettore un sospiro di sollievo. Perché il libro-lettera aperta di Marisa alle figlie Carlà, ex modella ed ex Première dame di Francia, e Valeria, regista e attrice, è a suo modo scandaloso, ma come solo l’alta borghesia (anche un po’ nobiliare) sa essere, ché Marisa si dilunga, sì, sull’infanzia sotto il fascismo e sui terribili giorni di guerra, con terrore dei bombardamenti e delle SS, ma soprattutto sulla sua vita di madre e donna che molto ha amato, ma senza scomporsi – amato sia il marito compositore e pianista sia l’amante pianista prodigio Arturo Benedetti Michelangeli, di cui si invaghì all’istante e con cui la passione scoppiò tra stazioni svizzere e foyer, rarefatta all’inizio pure quella (solo sguardi, a distanza di un anno l’uno dall’altro), e poi via via più coinvolgente, ma non fino al punto di perdersi, ché Marisa ha uso di mondo e sa dire “basta”. Le donne assertive americane direbbero che è una del genere “walk away and never look back”, gira i tacchi e non voltarti mai indietro, cosa che lei fece alle prime avvisaglie di impazzimento dell’“Arcangelo”, così chiamava il bell’Arturo, uomo adorabile ma anche impossibile – d’altronde suo marito Alberto gliel’aveva detto: io non sono un cretino e tu hai un amante, fai quello che vuoi ma per favore non lasciare la famiglia, io sarò qui quando avrai bisogno di me, perché questo è uno che ti farà soffrire (il marito ideale, Alberto, senza dubbio).

 

Fatto sta che Marisa Bruni Tedeschi, nel suo libro, è come appare nei film della figlia Valeria e di Paolo Virzì: di fatto nel ruolo di se stessa, incredibilmente snob ma anche incredibilmente ironica (anche se non sempre autoironica). E insomma Bruni Tedeschi madre è un personaggio da romanzo molto più delle figlie, questo è chiaro: basta la scena in cui appunto alza i tacchi sotto la luna e lascia Arturo solo con le sue paturnie, e cammina tutta la notte nei boschi, per poi prendere un treno e tornare dalla famiglia – e sul treno piangerà, sì, ma la storia con l’Arcangelo, scrive, finì lì. “Ma come hanno reagito le sue figlie?”, le ha chiesto Anais Ginori intervistandola per Repubblica, prima dell’uscita di “La pazza gioia” di Virzì, in cui Marisa recita nel ruolo di una nobile decaduta e non toccata dalla modernità, ma costretta ad affittare il maniero a una troupe di “cinema italiano”, che – si capisce – lei considera talmente plebeo da non meritare neppure troppo sdegno. “Si sono divertite”, le figlie, ha risposto Marisa a Repubblica, “Carla mi ha mandato un messaggio: ‘Mamma, è spassoso’. Anche se svelo alcuni segreti, non se la sono presa. D’altra parte se bisogna scrivere delle memorie senza sincerità allora meglio astenersi. Ho vissuto in una famiglia borghese in cui molte cose non andavano dette. Nel libro cerco di essere il più onesta possibile. Ci saranno persone, magari nella famiglia di mio marito, che si scocceranno. Pazienza” (divina noncuranza, chiave di tutto).

 


Una scena di "La pazza gioia" (foto LaPresse)


 

E ci si mette un po’, dopo aver letto Bruni Tedeschi, a entrare nello spirito più cordiale del duo autobiografico Maionchi-Salerno, che festeggia i quarant’anni di matrimonio con il diario rilassato di un connubio imperfetto che sembrava tale fin dall’inizio, a voler essere tradizionalisti, a cominciare dall’età di lui, abbastanza più giovane di lei. E invece siamo qui ancora a mandarci a quel paese, dicono e si dicono (lei dice anche che suo marito “di storie lunghe non ne ha avute”, durante il matrimonio, “di brevi sì”, ma alla fine lei l’ha perdonato, ed è lui quello tenero che le prende ancora la mano durante le cene). E comunque aveva ragione l’amica che, all’inizio della frequentazione con Alberto, leggendole per ridere i tarocchi – ha raccontato poi Mara a Gente – le aveva predetto che quel “ragazzino” con cui non le sembrava neanche  tanto il caso di uscire poteva essere, in realtà, l’uomo della sua vita. Ma forse l’autobiografia più “selfie” di tutte è quella di Ignazio Marino, ex sindaco della capitale e autore di “Il marziano a Roma”, istantanea dei dieci mesi – giorni? – che sconvolsero il suo mandato, e arma di sognata vendetta a scoppio ritardato, block notes (i suoi) alla mano.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.