Gian Luigi Rondi (foto LaPresse)

Gian Luigi Rondi e il diario di una vita scritto su consiglio di Andreotti

Mariarosa Mancuso
In apertura di “Le mie vite allo specchio” – i suoi diari appunto, pubblicati lo scorso gennaio dalle edizioni Sabinae – viene descritta così, da lui medesimo: “Avevo la necessità di precisare, di chiarire, di rispondere a certe polemiche che sentivo nascere attorno a me e di cui il mio inconscio aveva bisogno di liberarsi con le necessarie rettifiche”.

Fu Giulio Andreotti a raccomandare il diario, per annotare ogni sera quel che era successo nella giornata. Non si sa mai, una persona pubblica può avere bisogno di tornare su certi episodi o situazioni dopo anni, la memoria va aiutata con i dettagli che un tempo erano freschi. Al consiglio andreottiano, Gian Luigi Rondi aggiunge una motivazione tutta sua. In apertura di “Le mie vite allo specchio” – i suoi diari appunto, pubblicati lo scorso gennaio dalle edizioni Sabinae – viene descritta così, da lui medesimo: “Avevo la necessità di precisare, di chiarire, di rispondere a certe polemiche che sentivo nascere attorno a me e di cui il mio inconscio aveva bisogno di liberarsi con le necessarie rettifiche”.

 

L’inconscio che sente il bisogno di liberarsi “con le necessarie rettifiche” è francamente un capolavoro. Al pari delle 1.314 pagine che seguono, 20 soltanto per l’indice dei nomi, che abbiamo intenzione di leggere senza trascurare nemmeno una virgola. I carotaggi sono meravigliosi, l’inizio fa sognare. Gian Luigi Rondi inizia a fare il critico cinematografico con diritto di firma – esistevano allora oltre al titolare i critici sostituti, che in calce all’articolo avevano (vice) – il primo gennaio del 1947, a 25 anni. Prende servizio sostituendo Luigi Chiarelli che aveva “un infarto dopo l’altro”: entrata in scena degna di “Eva contro Eva”.

 

La prima cosa che gli dicono è di passare alla cassa, lo stipendio da professionista ammontava a 60.000 lire al mese. Per annotare l’uscita della prima recensione firmata basta una riga. Un’altra riga il 10 febbraio del 1947 ricorda “Firmato il trattato di pace con gli Alleati. La guerra adesso è davvero finita”. L’entrata in ruolo sistema l’imbarazzante faccenda di Cannes. “Il Tempo” lo aveva già mandato al festival, raccomandandogli però: “Cronache, non critiche, e sopratutto non firmi. Chiarelli potrebbe pensare che lo consideriamo già morto”.

 

L’inconscio che si libera – “con le necessarie rettifiche” – parecchi anni dopo segnala il problema del trucco di Alberto Sordi, mezzo milione: paghiamo noi del David di Donatello oppure la Rai?”. E mette a verbale che il decano dei critici italiani – 70 anni di mestiere, fino a poco tempo fa lo si vedeva in tv o alle anteprime romane con la sciarpa bianca d’ordinanza – aveva espresso riserve su Michelangelo Antonioni in un elzeviro intitolato “Cinema chiaro, cinema oscuro”.

 

La risposta è privata (“per maggiore serietà”, dice l’offeso). Il diario la registra il 7 marzo 1963: “Credi veramente che Germi abbia ragione quando pretende di far coincidere arte e divertimento, cioè non-noia? Ma dove diavolo è andato a prendere un simile criterio estetico? Di lui non mi meraviglio, di te sì”. I diari arrivano al 97, senza farsi mancare i giudizi salottieri: “Gente cheap stasera in casa Angiolillo”.

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