Alla Frontiera del Mito

Massimo Morello

Entro dieci anni la capitale indonesiana dovrebbe essere spostata da Jakarta. Un ennesimo simbolo di quel passaggio epocale che vede spostare a Oriente il centro della Storia. Un progetto utopico che, ancora una volta, potrebbe rivelarsi una distopia. E la fine del sogno delle grandi avventure in terre selvagge

“L'ultimo santuario di molte strane tribù e creature viventi alla Frontiera del Mito”. Così è stato definito il Borneo. Quest'immensa isola, la quarta del mondo, tra il Mar della Cina e l’Indonesia, è stata ed è la Frontiera di commercianti, esploratori, avventurieri, pirati, dai mercanti cinesi a quelli arabi, da Marco Polo a Magellano, dal naturalista fiorentino Odoardo Beccari, che nel 1865 fu tra i primi a visitarne l'interno quando era governato da sir James Brooke, il rajah bianco di salgariana memoria, all'inglese Redmon O'Hanlon, che nel 1983 realizzò il suo sogno di ragazzo in un’avventura che ha descritto in uno dei più bei libri di viaggio contemporanei, Nel cuore del Borneo. Le loro vicende e le loro cronache hanno alimentato un Mito in cui i drammi di Conrad s’intrecciano alle avventure di Salgari (non c’è dubbio che i pittoreschi e dettagliati resoconti che Beccari inviava alle riviste dell’epoca siano stati la maggior fonte d’ispirazione per il più popolare scrittore d’avventure italiano). Insomma, il Borneo - com'è scritto nell'introduzione a La follia di Almayer, primo romanzo di Conrad - è uno di quegli scenari che sono una “metafora delle azioni che vi accadono". Lo era quale topos dell’avventura e lo è ancor oggi quale luogo dove il cosiddetto secolo asiatico materializza le sue utopie e i suoi incubi, proprio come accadeva al protagonista del romanzo di Conrad.

 

E’ in Borneo infatti, che il presidente indonesiano Joko “Jokowi” Widodo intende spostare la capitale. Jakarta, l’attuale capitale, è sull’orlo del collasso. Per la sovrappopolazione, l’inquinamento, il rischio terremoti, perché sta letteralmente sprofondando per l’incontrollata estrazione d’acqua dal sottosuolo richiesta da 10 milioni di abitanti (30 considerando tutta l’area metropolitana), i cui scarichi vanno poi a contaminare i fiumi circostanti. Jakarta, come altre megalopoli asiatiche, è vittima di uno sviluppo incontrollato, di un gigantismo ipertrofico, di acromegalia. La nuova capitale dovrebbe invece materializzare l’ideale di un nuovo sviluppo, essere il simbolo dell’identità nazionale proiettata verso il futuro. Insomma, una versione indonesiana delle nuove metropoli “smart” e “green”, verdi e intelligenti, ecologiche e iperconnesse disegnate sull’archetipo di Singapore che tutta l’Asia sogna.

 


 

Questa città di cui ancora non si sa il nome, dovrebbe sorgere su 180.000 ettari tra il Penajam Paser settentrionale e il Kutai Kertanegara, due distretti del Kalimantan, la regione indonesiana che occupa i due terzi orientali del Borneo (la parte occidentale è il territorio malese del Sarawak. Sulla stessa fascia costiera s’incastra il microstato del Brunei, proprietà del sultano Muda Hassanal Bolkiah, già noto come l’uomo più ricco del mondo. L’estremo nord è lo stato dello Sabah, anch’esso malese). Un’area scarsamente popolata e a minimo rischio di disastri naturali quali terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche. Un’area di grande valore strategico, al centro dell’immenso arcipelago indonesiano sulle rotte tra Oceano Indiano e Pacifico ma esterna alle acque sempre più calde del Mar della Cina.

 

Quella città segnerà davvero l’ultima frontiera ai confini del mito, di quella che era chiamata Tanah Air Kita, “nostra terra e acqua”. Il Kalimantan, infatti, è ancora lo scrigno di un patrimonio biologico d’incredibile valore: nessuna biblioteca potrebbe contenere la quantità d'informazioni racchiuse nei cromosomi della foresta pluviale. Non è un’iperbole: le specie animali di questo ecosistema sono calcolabili tra 5 e 30 milioni. Undicimila le specie di piante, tra cui la Rafflesia, il fiore più grande del mondo, che una volta dischiuso può raggiungere i novanta centimetri di diametro. Tra la vegetazione nidificano 600 specie di uccelli, dall'Hornbill, l'uccello-rinoceronte, col suo grande becco corneo, a quella rondine della specie Collocalia, il cui nido è ricercatissimo dai golosi cinesi. Delle infinite varietà d’insetti alcune, come le farfalle arlecchino o le libellule scarlatte, appaiono quali fiori sospesi sul fogliame; altre sono indistinguibili, come lo stick insect, l’insetto stecco, identico a un ramoscello, o il ragno lichene il cui tono verdebrunito si perde tra humus e fango. In questo mondo perduto si celano mammiferi in via d'estinzione: il giaguaro maculato, il rinoceronte di Sumatra, la scimmia dalla proboscide. Questo è anche il rifugio dell’uomo selvaggio. Ossia, in lingua malese, l’Orang Utan. Queste grandi scimmie rossicce, parenti strette di scimpanzé e gorilla, hanno in comune con l'uomo il 99 per cento del patrimonio genetico: tutta la differenza sta in quella parte selvaggia, in quell'uno per cento di DNA.

 


 

La frontiera di quel mito l’ho attraversate molte volte: a piedi, a bordo dei klotok, le lunghe e sottili barche locali che risalgono i fiumi sino ai più remoti kampong, i villaggi dei dayak, discendenti dei tagliatori di teste di salgariana memoria (il termine dayak indica le diverse etnie che vivono nell'interno). E ogni volta era più difficile uscirne, col corpo e con la mente. Una volta ho rischiato di non uscirne proprio. Non tutto intero. Ma è la mente, soprattutto, a restare invischiata in una ragnatela di sensazioni, visioni, sogni. L’ultima volta è accaduto proprio nell’area dov’è progettata la nuova capitale indonesiana. Era il 1996, in occasione del Camel Trophy, la gara-avventura in fuoristrada che quell’anno attraversava il Kalimantan da est a ovest per quasi 1500 chilometri. Il percorso seguiva in gran parte le piste aperte nella foresta per trasportare tronchi che moltiplicano il loro valore per metro cubo a ogni metro verso i porti.

 

 

Ma per quella specie di obnubilamento che ti coglie nella foresta, di quelle cicatrici della deforestazione notavo soprattutto uno strano effetto collaterale: ai loro margini, proprio per effetto del dilavamento del terreno, si erano formate foreste bonsai di cilindri e coni di sabbia sormontati da piccoli quarzi.

 

Credo che oggi siano spariti anche quelli. La deforestazione del Borneo è aumentata in forma esponenziale, innescata  dallo sfruttamento minerario, dalla creazione di infrastrutture per le ricerche petrolifere offhsore, dalle coltivazioni di palme da olio e alberi da carta. Danno aggravato dal fatto che le aree coltivabili sono conquistate con la tecnica del “taglia e brucia” che ha provocato devastanti incendi come quelli che dal giugno scorso stanno intossicando di smog tossico l’intero arcipelago sino al sud della Thailandia. Nel frattempo, stanno scomparendo anche gli “uomini selvaggi”: privati del loro habitat sono facile preda degli indigeni e dei boscaioli che li uccidono o li catturano per tenerli in cattività o venderli ai predatori di zoo pubblici e privati.

 


 

La nuova capitale, probabilmente, sancirà la fine di ogni mito, salvo rinchiuderlo nei confini di qualche parco. Nonostante le assicurazioni del governo, infatti, secondo le organizzazioni ambientaliste, comprometterà definitivamente l’ecosistema, incrementando le concessioni minerarie, la costruzione di infrastrutture, dighe e impianti idroelettrici.

 


 

Sparirà anche il senso mistico dell’avventura nella foresta pluviale. Quella che Beccari nel libro Nelle foreste di Borneo, viaggi e ricerche di un naturalista descriveva così: “Infiniti e variati sono gli aspetti sotto i quali si presenta, come i tesori che nasconde…Il suo mistero, sacro alla scienza, tanto appaga lo spirito del credente, quanto quello del filosofo”.