Foto di undeklinable via Flickr

Il drone e il delfino

Massimo Morello

Illusioni, disillusioni e speranze di una piccola storia Birmana. Che può divenire una metafora. Dei cambiamenti del mondo, delle trasformazioni culturali, della difficoltà di analizzare l’altrove oltre la barriera degli stereotipi

«C’erano due fratelli pescatori. Che s’innamorano di due principesse sorelle. Le due coppie d’innamorati decidono di fuggire. I fratelli vanno al fiume e aspettano le principesse che sono scappate dal palazzo. Ma arrivano le guardie e allora i pescatori e le principesse si buttano nel fiume giurando di amarsi dopo la vita. E rinascono come delfini» racconta il vecchio capo-pesca del villaggio che ha sentito la leggenda da suo padre e questi dal suo.

 

 

Quel villaggio si trova a nord di Mandalay, antica capitale del regno birmano, seconda città del contemporaneo Myanmar. Il fiume è l’Irrawaddy (o Ayeyarwady), che attraversa il paese dai primi contrafforti himalayani sino al Golfo del Bengala. Il tratto di fiume sulle cui sponde si trova quel villaggio è popolato da una specie di delfini che da secoli collaborano coi pescatori locali per circondare i banchi di pesci e spartirsi il bottino.

 

 

E’ una di quelle storie incantate che ancora ti fanno venire voglia di scrivere e ancor più di andarle a scoprire, ad ascoltare, sperando che ci sia un vecchio narratore che la racconti. Il vecchio, però, non è proprio tale, visto che è più giovane di me, ma qui le aspettative di vita sono inferiori e personalmente continuo a pensarlo come il detentore e il narratore delle storie che sto cercando.

 

 

«Conosci altre leggende ?» gli chiedo.

 

«No. Solo questa».

 

Ma non sono disposto ad arrendermi.

 

«Ci sono Spiriti nel fiume?» chiedo, pensando che nel mondo magico dell’animismo birmano ci sia spazio per gli spiriti del fiume.

 

«No, non ci sono spiriti» risponde il vecchio anticipando la delusione che proverò nella mia successiva ricerca letteraria. 

 

Non mi resta che tentare la via della reincarnazione. «Pensi di essere stato un delfino in una vita precedente?» chiedo, pur conoscendo già la risposta, ma sperando in una smentita.

 

«Non ricordo le vite precedenti».

 

«Vorresti rinascere delfino?».

 

«No». Poi, quasi intuendo la mia delusione aggiunge: «Voglio rinascere pescatore per continuare a proteggere i delfini».

 

 

Resto col dubbio se sia sincero o anche quella battuta faccia parte di un copione ben scritto e recitato. Come le scene di pesca cui assistiamo: il vecchio ammette che le reti utilizzate sono a maglie molto più larghe di quelle utilizzate tradizionalmente. In questo modo ai delfini arriva tutto il pesce e quindi rispondono più rapidamente ai richiami dei pescatori. «Quando ci sono i turisti non hai bisogno di pescare» dice il vecchio. E i turisti, che ormai rappresentano la vera fonte di reddito per i villaggi, sono soddisfatti.

 

Qui l’unico spirito o fantasma che aleggia è il Phantom 4 Pro, il drone che ronza sopra le nostre teste e riprende qualche scena di questa storia. Senza suscitare alcuna curiosità negli abitanti dei villaggi. Che vivono come i loro padri e nonni, in villaggi più vicini al fiume che al tempo, ma che ormai vedono immagini del genere sui loro smartphone. 

 

 

 

La storia, dunque, non è così incantata. La pesca con i delfini è divenuta una nuova attività, ben strutturata e organizzata. Anche l’incontro col vecchio che racconta la leggenda fa parte del programma. Del resto avrei dovuto immaginarlo: questo viaggio è organizzato da un’agenzia sponsorizzata dalla Wildlife Conservation Society, organizzazione con sede a New York che segue diversi programmi di protezione ambientale in tutto il mondo.

 

 

In questo caso la Wcs è impegnata nella protezione del delfino dell’Irrawaddy (Orcaella brevirostris), una specie classificata nel XIX secolo dallo zoologo scozzese John Anderson quando era curatore dell’Indian Museum di Calcutta. Una specie a rischio d’estinzione, inserita nella “lista rossa” della International Union for the Conservation of Nature (Iucn), che  ne elenca tutte le caratteristiche e i rischi che la minacciano: la pesca per elettrocuzione, le reti di sbarramento sul fiume, l’inquinamento da mercurio usato per cercare oro nelle acque più a monte, l’incremento del traffico fluviale.

 

 

Grazie ad accordi tra Wcs e governo del Myanmar, quindi, nel 2005 è stata istituita la Irrawaddy Dolphin Protected Area, un tratto di fiume lungo 75 chilometri dove nuota circa un terzo della popolazione di delfini dell’Irrawaddy (una settantina). L’obiettivo non è solo di proteggere i delfini, ma anche di preservare quella tradizione di pesca. Per salvarsi, pescatori e delfini devono reincarnarsi in personaggi di uno spettacolo per turisti.

 

 

Per molti questa può essere interpretata come l’ennesima, malefica manifestazione del demone della globalizzazione. Altri si porranno il dubbio tra ciò che è vero o falso, a volte illudendosi di essere gli epigoni dei grandi viaggiatori, altre lamentando la sparizione di un mondo che non corrisponde alle loro fantasie.

 

 

Vera o falsa che sia è una bella storia. Perché si sta dimostrando efficace nella protezione dei delfini. Perché offre un’alternativa a una piccola popolazione che altrimenti sarebbe costretta a emigrare in città, oppure sopravvivere coltivando noccioline o con traffici illeciti (come quello del teak tagliato nelle foreste dello stato Kachin, oltre la riva occidentale del fiume). Ora, invece, i giovani, vogliono continuare la tradizione.

 

E’ una bella storia perché, quando ti ritrovi a bordo di una canoa in mezzo al fiume, ti rendi conto che l’interazione tra delfini e pescatori non è una favola. I pescatori li richiamano battendo col remo sull’acqua o percuotendo lo scafo con un piccolo strumento di legno simile alla bacchetta di un tamburo. Quando li sentono avvicinare si alzano in piedi e lanciano un grido, un “kruuu” ruvidissimo e prolungato per me impronunciabile come per i pescatori è impossibile pronunciare il nome latino dei delfini. E loro, i delfini, rispondono, si avvicinano alla barca oltre il raggio della rete cercando di chiudere in quella trappola i pesci che saranno il loro pasto.

 

 

 

Le scene di questa bella storia le potete vedere nelle foto di questo post, opera di Andrea Pistolesi e del suo fido drone.

 

Peccato solo che, a differenza dei loro parenti di mare (oltre le diversità morfologiche), i delfini dell’Irrawaddy non saltino sull’acqua. Se ne vedono solo il dorso scuro, lucido, le pinne dorsali e caudali. A volte sembra di cogliere un’immagine del muso arrotondato, buffo, come quello di un pupazzo. Immagini fugaci che nemmeno il fantasma sopra di noi riesce a cogliere.