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I mari del bardo

I marinai, Shakespeare, il giornalismo, l'India. Una lettura nuova di Kipling, senza pose colonialiste

Sandra Petrignani

Nel suo percorrere il mondo in lungo e in largo, come reporter o semplice viaggiatore, aveva ascoltato e raccolto tante storie al porto, sogni e leggende, squarci di biografie. "Scrivo di tutte quelle cose che arrivo a capire, e di molte altre che mi sfuggono"

"We are such stuff as dreams are made on and our little life is rounded with a sleep” dice Prospero nel quarto atto della Tempesta. Siamo fatti della materia dei sogni e la nostra breve vita è avvolta nel sonno… Quanta fortuna hanno avuto nel corso del tempo questi versi, e quanto forse sono stati fraintesi. Siamo fatti di sogni, ma da dove vengono questi sogni? Da fatti cosiddetti reali e, magari, banali. E, quando si scrive, da una parte c’è il Demone, ma dall’altra stanno proprio quei fatti che alimentano i demoni della creatività artistica, e alimentano il sogno che spesso non appartiene all’autore di una storia, ma a qualcuno che gliel’ha raccontata… Così funzionano gli scrittori.

 

E’ quanto pensava Rudyard (Ruddy) Kipling a proposito di quella scombinatissima opera finale di Shakespeare, in cui magia e sortilegi si mescolano a chiacchiere da ubriaconi, e disegni perversi sul destino, tremende vendette, contrasti fra rivali e nemici si risolvono in lieto fine e in un perdono generale. Lo spiegò il 2 luglio del 1898 in una lunga lettera inviata al direttore dello Spectator per intervenire nel dibattito sull’origine della Tempesta, così diversa per ispirazione da tutto quanto aveva scritto precedentemente il gigante inglese e che sembrava indicare una sua approfondita conoscenza del mondo marinaro fin lì ignorata dalla critica. Kipling era rimasto colpito soprattutto dalla notazione fatta dal giornale che quella commedia, quel divertissement, quel lavoro inclassificabile, non avendo nessun rapporto col mondo dell’autore, potesse essere semplicemente il risultato di un sogno. No, non era d’accordo, e spiega le sue ragioni in quella lettera, che viene ora proposta in Come Shakespeare giunse a scrivere La tempesta (Oligo ed., 60 pagine, 12 euro) nella cura e traduzione di Sara Grosoli e preceduta da una lunga introduzione di A. H. Thorndike del 1916. Ragioni che sono poi una dichiarazione di poetica. Effettivamente, nel 1609 (La tempesta fu scritta un anno dopo) c’era stato un naufragio di nave britannica al largo delle Bermuda.

 

Niente di più facile che il grande William si trovasse in qualche bettola e ne sentisse sproloquiare da un gruppo di superstiti, marinai ubriaconi, niente di più facile che si avvicinasse a uno di loro e lo incalzasse nel racconto, niente di più facile che quello, per non deluderlo e sempre più ebbro, superasse se stesso in fantasie e assurdità. Ed ecco che Shakespeare se ne va soddisfatto: era entrato nel locale scontento di sé, a corto di idee per scrivere, ed ecco che un fanfarone inventivo le spara grosse… Naturalmente diventerà un personaggio: quello del cantiniere sempre ubriaco Stefano che sogna di diventare re dell’isola dove la nave è naufragata. “E Shakespeare”, conclude Kipling, “ha reso anche il sognatore immortale”.

 

Nel suo percorrere il mondo in lungo e in largo, come reporter o semplice viaggiatore, anche Ruddy aveva ascoltato e raccolto tante storie di marinai al porto, sogni e leggende, squarci di biografie, ninnananne e canzonacce, storie tremende o edificanti, confessioni inconfessabili favorite da un bicchiere di vino, racconti incredibili di fantasmi e di fate. “Scrivo di tutte quelle cose che arrivo a capire, e di molte altre che mi sfuggono. Ma soprattutto scrivo di Vita e di Morte, di uomini e di donne, di Amore e di Destino…”, così dichiarava nella prefazione ai primi racconti, usciti su quotidiani e riviste e poi raccolti (in italiano in  La città della tremenda notte, Adelphi), quando aveva poco più di vent’anni e non era ancora il famoso autore dei Libri della jungla, Capitani coraggiosi, Kim. E nell’ultimo libro, l’autobiografia Qualcosa di me: “… la verità è che il cervello ritiene tutto quanto entra nell’orbita dei nostri sensi, ma noi non ne abbiamo una coscienza distinta”. Allora, che fa uno scrittore? Ascolta, annusa, registra tutte le scene, le parole, gli odori. E poi ricorda, e scrive. Che si chiami Kipling o Proust. Che il suo sguardo sia rivolto verso l’interiorità o alla luce esteriore. E Kipling cercava il sole e la luminosità del giorno muovendosi fra “aneddoti facezie e profezie” scriveva nel 1992 Ottavio Fatica, uno dei suoi massimi cultori, introducendo per Theoria L’Egitto dei maghi (che sarà riedito a sua cura prossimamente da Adelphi),  perché “Kipling si aggira in un fittissimo reticolo di intersegni, il sensorio sempre vigile e discreto sulla persistenza dell’antico, che non è il passato, bensì il cosmo”.

 

Osservava Claudio Magris, parlandone una settimana fa sul Corriere della Sera, come Kipling sia stato nel tempo offuscato perché “ridotto a bardo dell’Impero britannico, celebratore del fardello dell’uomo bianco, anche se quel fardello, come scrive ripetutamente l’autore stesso, non è una sfilata d’onore davanti alla Regina ma un lavoro da spazzini e da facchini e la gloria imperiale è uno spegnersi di fuochi, destinati all’oblio come quelli antichi di Ninive e di Tirso”. Certo Rudyard non è più per noi quello dei nostri padri, che ne mandavano a memoria la celebre e un po’ pomposa poesia Se: “Se riuscirai a mantenere la calma quando tutti intorno a te la stan perdendo… Se riuscirai a sognare, senza fare del sogno il tuo padrone… Se riuscirai a fare un solo mucchio di tutte le tue fortune e rischiarle in un sol colpo a testa o croce… Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti… Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo…” etc. etc. etc., e forse per molti è ancora solo un celebre scrittore per l’infanzia. Eppure non deve essere così offuscato il suo astro di narratore per tutti, se appena il mese scorso I racconti dall’India sono stati riproposti nella Bur di Rizzoli con una nuova prefazione di Matteo Nucci, e se Adelphi – grazie sempre alla pervicace passione di Fatica – ne va riproponendo l’opera, da Puck il folletto ai più sofisticati complessi racconti dell’ultima parte della vita, in tanti appassionanti volumi (fra non molto disponibili pure nei tascabili). 

 

Certo, si potrebbe osservare che è un autore più popolare fra i maschi che fra le femmine. La poesia Se finisce così: “… sarai un Uomo, figlio mio”. Era il 1910, aveva quarantacinque anni ed era padre di un maschio e di una femmina, morta a sei anni (personaggio di Storie proprio così e dedicataria di molte poesie). Ma a straziarlo – forse pure perché viene dopo l’altra – sarà la morte del figlio, scomparso nella Prima guerra mondiale e di cui non seppe il destino. Anche a lui dedicò dolorosissime poesie. Era stato lo stesso Rudyard, oltretutto, a spingerlo ad arruolarsi. I libri per bambini sono pensati inevitabilmente soprattutto per piccoli lettori maschi, maschi ne sono i protagonisti. Le cose funzionavano così, non se ne può addossare la colpa a Kipling, e ciò non toglie che i trovatelli senza famiglia Mowgli e Kim hanno fatto innamorare di sé anche stuoli di bambine che sognavano di parlare con gli animali come Mowgli e di sedersi, come Kim, “in barba alle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah che su un basamento di mattoni fronteggiava il vecchio Ajaib-Gher, la Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore”.

 

Sono, i suoi romanzi e racconti, pieni sempre di animali, uomini, donne, bambini e altre presenze fantastiche. C’è il ricordo di un’infanzia indiana libera e stravagante, il dolore per la perdita di quel Paradiso terrestre (perché mandato in Inghilterra a studiare) e l’addestramento alla dura vita degli adulti, l’attrazione per i tanti diversi paesi del pianeta, dal Pakistan alla Birmania, dalla Cina al Giappone, dagli Stati Uniti all’Africa all’India, quella dell’infanzia interrotta e poi del ritorno come infaticabile giornalista. C’è la saggezza imparata dal padre, col quale da grande gli piaceva parlare e fumare la pipa, continuando ad assorbirne i consigli. Quel padre, nell’amatissima casa del figlio ormai sposato, a Brattleboro nel Vermont ora museo, aveva inciso sopra il caminetto le parole del Vangelo: “Lavora mentre è ancora oggi, perché viene la notte in cui nessuno può lavorare”.

 

“Donne e uomini… la casa, che è il loro tempio, non farà che rivelare la vera natura di chi ci ha abitato”, si legge nel racconto “Loro” nell’omonima raccolta adelphiana. Kipling era un grande lavoratore e le sue case le sceglieva percependone il feng-shui, quella presenza impalpabile di femminile e maschile, di buio e di luce in un buon assortimento dei cinque elementi dell’universo secondo la scienza dell’Ayurveda: terra, acqua, fuoco, aria, etere. Perché era così Ruddy, come dovrebbero essere tutti gli scrittori: i piedi radicati alla terra e la testa capace di sogni. Fin da piccolo aveva imparato dagli indiani l’importanza del sacro e da una bambinaia inglese aveva ascoltato una ballata che parlava di un corvo.

 

Quando il corvo, dall’alto del castello, batteva le ali tre volte, era segno di malaugurio. Si era scelto come dio-guida Ganesh dalla testa di elefante, Ganesh protettore degli artisti. Amava perdersi nei suoni e nelle diverse voci del mondo, ma per tornare a casa, al suo tavolo pieno di ricordi di viaggio, come racconta nell’autobiografia: “Come molte persone che lavorano al medesimo posto per un certo tempo, ho sempre tenuto piccoli oggetti sul mio tavolo, che misurava circa tre metri da nord a sud, ed era ingombro quanto mai. C’era un lungo portapenne di lacca in forma di piroga pieno di pennellini e di stilografiche defunte; una scatola di legno contenente graffette ed elastici; un’altra di latta, con gli spilli; un sottobottiglia contenente ogni sorta di cose indispensabili e inutili dalla carta smerigliata a una serie di piccoli cacciaviti; poi un fermacarte che si diceva appartenuto a Warren Hastings, governatore in India nel Settecento; una piccola pelle di foca e un piccolo coccodrillo di cuoio facevano il medesimo ufficio su altre carte. Un regalo macchiato di inchiostro e un re dei nettapenne, di cui mi faceva dono ogni anno una cameriera da noi molto amata, completavano il grosso della truppa di questi piccoli feticci”.

 

Ottavio Fatica mi conferma che Kipling non è mai entrato in un vero e proprio cono d’ombra, la scrittura apparentemente facile, quella sua grande capacità di parlare al lettore come seduto davanti al fuoco del camino, continua a esercitare il suo fascino. Semmai, aggiunge, bisogna insistere a liberarlo da certe leggende imprecise, da certe “pose” colonialiste o addirittura razziste, da un certo machismo: “Aspetti – dice – fortemente smentiti dall’opera, a leggerla nella sua interezza”. E non a caso era stimatissimo da altri scrittori, come Eliot, come Auden, come James, come Borges, a citarne solo alcuni. Insomma c’è un Kipling solare e vagabondo e c’è un Kipling che invecchia (anche se non tanto: morì di ulcera a settant’anni – alla scrivania, vuole la leggenda – il 18 gennaio 1936) e che affronta sempre di più il buio dell’anima portandolo nelle sue storie. E sono proprio le storie “oscure” (raccolte principalmente in “Loro”) che Fatica dice di preferire oggi, “anche se a ben guardare, il pozzo nero c’è sempre stato nei suoi racconti. Però restava nascosto rispetto all’incredibile immediatezza del suo narrare”. Vi si affollano personaggi femminili, anche questi sempre presenti, ma nei racconti della vecchiaia si fanno “più enigmatici e affascinanti”, come se lo scrittore tentasse di fare finalmente i conti con l’altro da sé o forse con la parte meno scandagliata di se stesso.

 

Ci sono due racconti nella Città della tremenda notte  (Bee, bee, Pecora Nera e L’ultima storia) che chiudono come in un cerchio l’ispirazione dello scrittore. Nel primo torna all’infanzia, allo shock terribile della separazione dalla madre e dal padre quando decidono di lasciarlo in Inghilterra, con la scena indimenticabile di lui e la sorellina che sperano di raggiungere il piroscafo in cui sono risaliti i genitori, correndogli dietro lungo una spiaggia e finendo a piangere disperati di fronte alle onde. “Punch e Judy, pur senza averne colpa, avevano perso tutto quello che era il loro mondo”. Quel mondo in cui il piccolo Ruddy avrebbe preferito restare a chiedere l’elemosina con la mano di un morto che ti può piovere addosso da un momento all’altro sfuggendo al becco di un avvoltoio (come gli era effettivamente accaduto a Bombay, vicino alla Torri del Silenzio, dove gli zoroastriani lasciano esposti i morti agli elementi naturali e ai rapaci). L’Ultima storia è invece un viaggio dantesco nell’oltretomba in cui lo stesso autore viene scortato dal Demone del Malcontento – generalmente rannicchiato in fondo al suo calamaio – nel Limbo degli Sforzi vani dove incontra i suoi personaggi, molto diversi da come li aveva immaginati e incapaci di reggersi in piedi, mentre il Maestro, Rabelais in persona, cui chiede una lezione di scrittura gliene dà ben tre facendolo arrossire: “La Prima Legge è farli reggere sulle loro gambe, e la Seconda è farli reggere sulle loro gambe, e la Terza è farli reggere sulle loro gambe”.

 

Così Kipling conclude sconfortato il racconto: “Ebbene, la prova che questa storia è assolutamente vera sta nel fatto che non ne seguiranno altre”. Ma era solo il 1888, Ruddy era un giovane scrittore alle prime armi. Aveva, per nostra fortuna, ancora molto tempo e molte pagine davanti a sé.

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