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Febbraro: un raggio di luce nella poesia italiana contemporanea

Matteo Marchesini

La legge del cosmo contro il caos della notte messi in versi. Alla "bestia nera", ovvero l'anarchia, il poeta contrappone l'affermazione determinista, precisa, minuziosa e definita 

Una definizione famosa della poesia la considera un sogno fatto alla luce della ragione. Leggendo “Come sempre”, l’autoantologia di trent’anni di attività poetica appena pubblicata da Paolo Febbraro per Elliot, viene quasi da rovesciare quella definizione. Qui si potrebbe parlare di una ragione che si esprime nella luce del sogno. Ci sono scrittori la cui opera sembra consistere nell’atto di far affiorare l’Es. Febbraro arriva invece a un ragionato sregolamento della lingua, e a un’eccezionale intensificazione percettiva, portando alle estreme conseguenze gli ordini militareschi del suo Super-io.

 

Non per caso, una delle parole che ricorrono con più frequenza in “Come sempre” è “legge”. La bestia nera del poeta è l’anarchia – è l’informità insidiosamente materna ed equorea del subconscio e del sogno. E forse l’autoritratto febbrariano più aderente rimane quello dell’insonne, definito come colui che “non vuole / farsi decifrare dalla notte”, ossia che pur di non cedere a ciò che non può controllare accetta il peso di una vigilanza senza requie. Contro il caos, questa scrittura tutta tramata di ossimori contenitivi cerca una “spaziosa / chiusura”, una nettezza quasi violenta di contorni, una forma cogente e al tempo stesso sontuosamente stratificata, dove ogni termine accumuli più significati senza perdere in trasparenza.

 

I testi più compostamente folli della raccolta diventano tali proprio portando all’assurdo una razionalità prepotente, e lasciandola funzionare come una macchina celibe: si vedano “Ordine sparso” o “Serie di sogni”. Razionalità, si è detto: e infatti sul piano della visione del mondo, il corrispettivo della forma cogente è il determinismo, una specie di Spinoza ibridato con Darwin. Febbraro vorrebbe ridurre tutto a un’unica materia. Questo fatalista accanito, divenuto tale come per un represso desiderio di libertà, dà alla poesia la forma quasi costante dell’affermazione recisa, dell’imperativo o della definizione millimetrica e senza scampo. Sono tipici, sotto questo aspetto, i monologhi-confessione di personaggi del mito biblico o classico.

 

Tutto nel mondo febbrariano è già sempre accaduto: e il poeta dispone i materiali offerti dalla Grande Cultura in una severa e avvincente geometria, inventando le parole di Adamo o Cassandra o Lucifero. Il futuro così spesso usato è quindi in realtà un passato: lo sguardo è quello postumo, calato dall’alto, di chi sfoglia un volume. Quanto all’uomo che vuole agire nel mondo ora, sottraendosi al destino già scritto, Febbraro ne è evidentemente irritato, e per colpirlo lo ritrae nei momenti peggiori: quelli in cui tenta di trasformare le metafore in volgari ideologie, e le verità generali in generiche chiacchiere giornalistiche.

 

Più di tutti, “Chi parla di salvezza è losco”: e per Febbraro, tendenzialmente, un po’ losco è sempre colui che non si è risolto nella “legge” impietosa e feconda del cosmo. L’onestà di questo poeta sta insomma nel denunciare senza infingimenti la sua marziale identificazione con l’aggressore, ovvero la repressione sofferta della parte notturna, della parte vinta e utopistica che rischia sempre di pretendere qualche risarcimento velleitario.

 

Ma ciò che non si concede nella rappresentazione diretta di homo sapiens, Febbraro lo riversa poi sul paesaggio. Fissandola in plastiche incisioni, il poeta presta alla natura delle voci cocciute, tenere, umane. Proietta sulla terra e sull’acqua, sugli animali e sulle piante gli impulsi psichici profondi e le tensioni morali: riscontra un’etica austera della pietra davanti al vento e al mare, si accorge che il monte “pende per immaturità della pianura”, e che la polvere spande una materna nostalgia. Dunque, Febbraro abolisce il tempo; se ne difende come si difende dalle folle umane, intrappolando la storia e i suoi simili in un quadro o in un paesaggio.

 

Eppure, c’è in “Come sempre” una vistosa eccezione: quella delle poesie d’amore, anzi delle poesie coniugali. L’io poetico parla infatti di una moglie, ossia di un essere che di nuovo gli impone una “legge”, che “regge” il corpo del marito il quale a sua volta fa a lei da spartito e da argine. Questo contenimento regala anche la massima espansione affettiva al poeta, gli dà metro e ritmo, ovvero una misura di sé. Ma la bellezza della donna è anche “fuori legge”. Perciò “ogni volta che la sfioro / io sfioro il disastro”, dice Febbraro; e attinge la migliore ispirazione, aggiungiamo noi.

 

Qui il futuro è davvero futuro e incombe incerto, minaccioso, immaginato con dolorosa dolcezza: la vecchiaia, la morte che romperà l’equilibrio della coppia, la straziante proiezione dell’assenza. Sono i temi magnificamente condensati in “Tempo reale”, un testo che basta da solo a fare di questa raccolta un evento importante nella poesia italiana contemporanea. 

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