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riflessioni

Il populismo non risparmia nessuno

Michele Magno

Storia e fenomenologia del “Vaffa”, dalle origini contadine nell’800 alla democrazia dei clic. Quanto è trasversale il virus demagogico. Dagli Stati Uniti al Sudamerica, l'ideologia del popolo nasconde un bisogno latente

C’è chi la considera una sua opera minore, ma Delirio a due di Eugène Ionesco (1962) resta un capolavoro del teatro dell’assurdo. Protagonista dell’atto unico è una coppia impegnata nel più classico degli esercizi coniugali: la lite. Il pretesto è futile, anzi ridicolo. Lei sostiene che non c’è nessuna differenza tra la lumaca e la tartaruga. Lui non è d’accordo, e perciò urla, sbraita, usa gli argomenti più strampalati pur di dimostrare che ha torto. Il dissidio è senza via d’uscita, e nel corso di un chiacchiericcio che rapidamente raggiunge le vette del nonsense si allarga fino a mettere in discussione il futuro della loro convivenza. Nel frattempo scoppia una guerra di cui lo spettatore ignora le ragioni, e un bombardamento aereo rischia di radere al suolo la città. Mentre la casa crolla, entrambi continuano imperterriti ad azzuffarsi rinfacciandosi occasioni perdute e sogni svaniti, travolti da rancori mai sopiti e incuranti dell’apocalisse che si scatena fuori dalle mura domestiche. La pièce del drammaturgo franco-rumeno è una fantastica metafora di una delle più scombiccherate legislature della storia repubblicana, segnata nelle sue variegate fasi da  manifestazioni pirotecniche di ridda, farsa, gazzarra, circo, taranta.

 

Lo schieramento contro meritocrazia e concorrenza è riuscito a neutralizzare la sfera della politica, imponendosi in cambio del consenso

 

Dopo la parentesi virtuosa del governo Draghi si torna così alla “normalità”, cioè a una condizione di instabilità interna e di inaffidabilità internazionale. Alle elezioni del 2018, il Rosatellum aveva prodotto una rappresentazione tutto sommato fedele delle scelte degli elettori. Tuttavia, come hanno fatto notare diversi analisti, si è trattata di una fortuita coincidenza dovuta alla disomogeneità geografica del voto: la coalizione di maggioranza relativa, cioè la destra di Berlusconi, Salvini e Meloni, infatti, ha fatto incetta di collegi uninominali solo al nord, mentre al sud sono andati in gran parte ai pentastellati. Secondo le simulazioni più attendibili, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, il 25 settembre prossimo potrebbe andare ben diversamente: la destra, pur avendo meno della metà dei consensi anche nei sondaggi più favorevoli, sembra destinata a conquistare una confortevole maggioranza in entrambe le Camere.
L’Italia era in crisi di rappresentanza già nel 1991 e lo è ancora di più nel 2022. Il nostro sistema politico è stato sottoposto a una torsione senza precedenti nel panorama delle democrazie occidentali: una serie continua di riforme elettorali, tese a forzare dall’alto una transizione bipartitica, senza peraltro avere il coraggio di imporla fino in fondo, ma costruendo un cervellotico, e quasi unico al mondo, meccanismo delle coalizioni pre elettorali. Ciò che ne è uscito è la politica italiana della Seconda Repubblica, quella che abbiamo visto negli ultimi decenni: un ibrido zoppicante e costantemente a rischio di perdere ogni equilibrio. Partiti effimeri che si fondono e si scindono ogni pochi mesi, alleanze forzate che crollano dopo ogni elezione perché non le unisce alcun progetto che non sia quello di impedire la vittoria dell’avversario, leadership potenti che durano pochi mesi per spegnersi subito dopo. La transizione iniziata trent’anni fa con il referendum sulla preferenza unica, insomma, non si è mai conclusa, e sembriamo più lontani di allora da una qualche ragionevole meta.

 

Basti pensare che il nostro paese ha ancora un disperato bisogno di riforme, per  sbloccarne l’immobilismo sociale e la stagnazione economica. Ma, promesse da tutti e quasi mai realizzate da nessuno, restano una specie di miraggio. Che cos’è che in Italia impedisce di fare le riforme? La risposta non è difficile. Più sono necessarie, maggiori sono le resistenze che incontrano. Si tratta di un paradosso micidiale. Qualunque sia il provvedimento immaginato per colpire privilegi e corporativismi, scatta immediatamente la reazione delle categorie avvinghiate a condizione di favore: monopoli, numeri chiusi, condoni, carriere assicurate, pensioni speciali, proroghe ed esenzioni, ope legis, ordini professionali e privilegi di casta (da ultimo, lo si è visto con balneari e tassisti). Formano un esercito folto e agguerrito, e spesso riescono ad averla vinta aizzando un particolarismo spietato e saccheggiando le casse pubbliche. E’ contro questa muraglia che si infrange qualsiasi vento riformatore. Lo schieramento antimeritocratico e anticoncorrenziale è riuscito così a neutralizzare la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza.

 

Il termine populismo è tanto più inflazionato quanto più è lontano dalla sua origine storica: il populismo russo da un lato, e quello americano dall'altro

 

Lo ha sperimentato sulla propria pelle anche la nostra personalità più prestigiosa e più autorevole, incaricata dal presidente Mattarella di affrontare drammatiche emergenze – dalla pandemia alla crisi economico-sociale – anche attraverso “riforme di struttura”, come si sarebbe detto una volta, peraltro necessarie per ricevere i denari europei. “Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”: quando pronunciò la sua celebre massima, Mao Zedong si riferiva al caos della società cinese all’inizio degli anni Sessanta, che secondo lui avrebbe favorito il movimento rivoluzionario. Da noi, invece, ha risvegliato gli spiriti animali del populismo. Tenuti a freno dal patto di unità nazionale, alcuni opinionisti li avevano dati sul viale del tramonto. Al contrario, erano vivi e vegeti. Aspettavano solo l’occasione propizia per potersi manifestare nuovamente in tutta la loro  rozza vitalità. I pretesti usati sono noti, ma con l’approssimarsi delle elezioni è scattato l’istinto di sopravvivenza di chi considerava quel patto una gabbia da cui liberarsi al più presto, e il suo custode una figura troppo ingombrante e, per questo, sgradita. 

 

A questo punto, però, è opportuno fare una precisazione. Nel dibattito pubblico il termine populismo, curiosamente, è tanto più inflazionato quanto più è lontano dalla sua origine storica. Origine che è duplice: il populismo russo da un lato, e quello americano dall’altro. In Russia il termine fu coniato a metà Ottocento per indicare un movimento di intellettuali che, in opposizione all’autocrazia zarista, riscoprì il popolo, in particolare i contadini. Movimento che vagheggiava un socialismo romantico, agrario, tradizionalista, volto a restaurare una mitica comunità incontaminata, in grado di resistere alle spinte modernizzanti provenienti dall’occidente. Del tutto indipendentemente, a quel primo populismo corrispose verso fine secolo un secondo sull’opposta sponda dell’Atlantico, dove nel 1892 lo U.S. People’s Party indirizzò il malessere dei piccoli farmer proprietari del Midwest e del Sud contro grandi imprese, alta finanza e ambienti corrotti di Washington.
Come ha osservato uno dei suoi più acuti studiosi, Alfio Mastropaolo, nel populismo vive un orientamento politico-ideologico presente nella tradizione politica americana fin dai suoi esordi. In esso convergono i temi del “self made man”, dell’autonoma responsabilità degli individui, del decentramento, dell’autogoverno locale e delle sane virtù della “middle class”, alternative ai vizi e ai privilegi delle élite. Ma il termine ben presto divenne così elastico da risultare fuorviante, oppure inutile. Roosevelt e Reagan, Bush e Obama e oggi Trump: non c’è presidente degli Usa che sia sfuggito all’appellativo di populista. Il suo abuso che si è fatto e si fa tuttora oltreoceano, quindi, dovrebbe già costituire un monito alla prudenza.

 

Il lemma populismo torna in auge per classificare i regimi nati in America Latina negli anni Venti del secolo scorso. Getulio Vargas in Brasile e Juan Domingo Perón in Argentina sono forse i due casi più noti. Entrambi attratti dai fascismi europei e dalle loro tecniche di mobilitazione del consenso, riuscirono a integrare ceti sociali prima condannati all’esclusione mediante una singolare miscela di manifestazioni di piazza, leadership carismatica e generosi provvedimenti paternalistico-redistributivi. Il populismo sudamericano, tuttavia, non ebbe mai la dignità di un’ideologia. Fu capace di sfruttare abilmente la retorica del popolo umile, rapinato dalle oligarchie latifondiste e dalla borghesia “compradora”.

 

Getulio Vargas in Brasile e Juan Domingo Perón in Argentina, attratti dai fascismi europei, riuscirono a integrare ceti sociali prima esclusi

 

Ridefinito in questo modo, il concetto di populismo era pronto a fare il giro del mondo. Nella seconda metà del Novecento viene infatti impiegato per designare i movimenti nazionalisti e antimperialisti proliferati in Africa e in Asia. Questa svolta semantica trova il suo imprimatur nel primo testo scientifico dedicato all’argomento, una volta abbandonato il teatro americano. Si tratta di un libro pubblicato nel 1969 a cura di Ernest Gellner e Ghita Ionescu (Populism: Its Meanings and National Characteristics), in cui il populismo diventa ufficialmente un contenitore dove si potevano far rientrare comodamente, per citare qualche nome, i cartisti inglesi, il bonapartismo, Gandhi, Sukarno, Nyerere. Bastava a definirli una concezione organicistica, secondo cui l’antica armonia, saggezza e moralità del popolo sarebbero state turbate da classi dominanti rapaci e dissolute. Il populismo terzomondista era, in verità, una categoria prevalentemente accademica. La novità è che alla fine anni Ottanta diventa una categoria mediatica e politica alla ricerca di antenati “illustri”. In Francia vengono trovati nel sanguigno movimento creato nei primi anni Cinquanta dal bottegaio di provincia Pierre Poujade, intriso di nazionalismo antiarabo, antisemitismo, rivolta fiscale, suggestioni antiparlamentari.

 

In Italia sarà il Fronte dell’Uomo Qualunque fondato da Guglielmo Giannini nel 1946 ad essere riconosciuto come il suo avo più genuino. Marco Tarchi gli ha poi affiancato la retorica dell’antifascismo e della maggioranza silenziosa, il frontismo del Pci e del Psi, il popolarismo della Dc, le battaglie contro il “Palazzo” di Pasolini e contro la partitocrazia di Pannella, le picconate di Cossiga e Mario Segni, Bossi, Berlusconi e Di Pietro, i “girotondini” e il “popolo viola”. (L’Italia populista, il Mulino, 2018). Questo per dire che un po’ di populismo, senza neanche cercarlo troppo, si può scovare dappertutto e che quindi un minimo di cautela  è  indispensabile. Da ultimo, una breve parentesi sul movimento fondato da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Al di là del rituale appello diretto al popolo sovrano, infatti, esso si è caratterizzato anzitutto come una rivolta contro la modernità.

 

Il popolo al quale si rivolgeva il M5s non è "semplice e umile", ma è il popolo sofisticato del web; non nasce dallo spaesamento di fronte alla modernità

 

Il popolo dei movimenti populisti del terzo millennio è quello dei disoccupati, della borghesia minuta, dei disorientati, degli impauriti dalla globalizzazione. Ma con il M5s delle origini ci troviamo su un pianeta diverso: il popolo al quale si rivolge o, meglio, si rivolgeva non è il popolo “semplice e umile”, ma è il popolo sofisticato del web; non nasce dallo spaesamento di fronte alla modernità, ma dalla modernità stessa. Si trattava di un elemento determinante del suo profilo politico e culturale. Si trattava, perché nell’èra di Giuseppe Conte per un verso è entrato nella stanza dei bottoni con un’attitudine sfacciatamente trasformistica, per l’altro si è caratterizzato come rappresentante dei perdenti nella lotteria della vita: i poveri, gli ultimi, i sofferenti, non senza una spruzzata di ambientalismo di marca paleoindustriale. Cosa che, almeno in parte, spiega il crollo della capacità attrattiva del “Vaffa” in vasti settori del ceto medio.

 

In conclusione, forse occorrerebbe restituire al termine populismo la sua antica funzione descrittiva. Nel testo citato, Tarchi lo definisce così: “Una mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione”. Dal canto suo, il politologo inglese Paul Taggart lo ha definito “servitore di molti padroni”, perché “il populismo è stato uno strumento dei progressisti, dei reazionari, degli autocrati, della sinistra e della destra”. E gli attribuisce “un’essenziale capacità camaleontica, nel senso che acquisisce sempre il colore dell’ambiente in cui si manifesta” (Il populismo, Città aperta, 2002). In estrema sintesi, il populismo è al massimo una ideologia “debole”, nelle cui espressioni storiche sono tuttavia ricorrenti alcuni elementi distintivi: primo tra tutti l’appello diretto al popolo, senza mediazioni istituzionali, contro l’establishment.

 

Ora, combattere l’intolleranza verso ogni sorta di diversità, le ossessioni securitarie, le smodate passioni identitarie, i toni rissosi e triviali, la violenza verbale e il folklore demagogico che infestano il suo linguaggio e le sue parole d’ordine è perfino un imperativo etico. Ma qualificare con snobistico disprezzo ogni manifestazione di disagio popolare come protesta sterile e baccano da ignorare è, come disse Joseph Fouché a proposito della fucilazione del duca di Enghien (1804), peggio di un delitto: è un errore politico. E’ solo un modo miope per cavarsi dai guai e ridimensionare un problema molto serio: il distacco dei cittadini dalla politica, minaccioso preludio di un più grave distacco dal sistema democratico.

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