Con o senza cipria il populismo di destra resta antieuropeista

Claudio Cerasa

L’incapacità dei partiti conservatori di emanciparsi dalla propaganda populista ha trasformato la difesa dell’integrazione del Vecchio continente in una battaglia di sinistra. Idee nel giorno della festa dell’Europa
 

Nel migliore dei casi fanno solo finta di non capire, come è successo martedì scorso a Bruxelles. Nel peggiore dei casi cercano solo di non farsi capire, come è successo la scorsa settimana in Francia. In entrambi i casi il risultato non cambia: i populisti di ieri, nonostante la cipria, restano pericolosi come lo erano un tempo. Perché? Proviamo ad arrivarci. Nel giorno in cui l’occidente libero si ritrova a festeggiare un compleanno importante per chi crede e per chi scommette nelle democrazie liberali – il 9 maggio è la festa dell’Europa – ci sono almeno due domande complicate che è necessario formulare per provare a capire qualcosa di più su quello che è lo stato reale degli anticorpi che ha a disposizione l’Europa per combattere contro i suoi nemici. La prima domanda è: chi sono oggi i veri difensori dell’Europa? La seconda domanda è: ma davvero i populisti antieuropeisti sono cambiati? Sarebbe bello poter rispondere alla seconda domanda dicendo che sì, i populisti sono cambiati, sono più innocui, sono più consapevoli, sono meno irresponsabili.

Ma il problema è che al fondo i sovranisti, sia quelli francesi sia quelli italiani, hanno cambiato la forma ma hanno mantenuto intatta la sostanza delle loro idee. E la sostanza ci dice che i populisti, nonostante la cipria, vogliono ancora la stessa cosa di ieri. Vogliono indebolire l’Europa. Vogliono rallentare il suo processo di integrazione. Vogliono dimostrare che la vera forza dell’Europa sono gli stati quando vengono lasciati liberi e non l’Europa quando viene lasciata libera di integrare gli stati. E così, ancora, succede che Matteo Salvini e Giorgia Meloni, subito dopo l’intervento di Mario Draghi al Parlamento europeo, hanno commentato il discorso del presidente del Consiglio, discorso in cui Draghi chiedeva all’Europa di essere più veloce, anche a costo di eliminare il meccanismo dell’unanimità, sostenendo che finalmente Draghi ha scelto di dire in Europa le stesse cose che da anni i sovranisti sognano di affermare in Europa. “Europa inadeguata. Trattati da cambiare. Bene Draghi, la Lega lo chiede da anni, rimettiamo al centro i popoli, il lavoro, la crescita e la sicurezza”, ha scritto Salvini. E lo stesso ha affermato Giorgia Meloni: “Questa Unione europea è inadeguata a fronteggiare le grandi sfide dei nostri tempi. Serve una profonda revisione dei Trattati e una diversa Europa che si occupi dei grandi temi: sicurezza, immigrazione, energia, visione di politica estera”.

Draghi, in verità, aveva chiesto all’Europa una riforma dei trattati perché “l’integrazione europea è l’alleato migliore che abbiamo per affrontare le sfide che la storia ci pone davanti”. E aveva fatto riferimento a un federalismo pragmatico, per così dire, perché, dice Draghi, affrontare insieme queste sfide non significa solo finanziarle insieme ma significa “disegnarle insieme, sorvegliarle insieme, assicurarsi che i soldi siano ben spesi tutti insieme”. “Dobbiamo – ha detto Draghi – superare il principio dell’unanimità, da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata.  Un’Europa capace di decidere in modo tempestivo è un’Europa più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo”.

Draghi, in sostanza, ha spiegato che l’Europa può avere un futuro radioso solo a condizione che i trattati vengano cambiati per rendere l’Europa più veloce, e non per far pesare il veto di un singolo paese (avete mai sentito parlare di Orbán?). E mentre Draghi spiegava questo i sovranisti, fingendo di non capire, sostenevano invece che l’Europa che ha in testa Draghi è un’Europa in cui i trattati possono essere cambiati per dare agli stati la possibilità di fare sempre di più ciò che vogliono. E lasciare fare agli stati ciò che vogliono significa continuare a fare quello che gli antieuropeisti sognano di fare da anni: provare a sfasciare l’Unione europea, limitandosi solo a farlo con la voce più bassa. Il come farlo lo ha spiegato bene Marine Le Pen durante la campagna elettorale. Le Pen ha nascosto il suo antieuropeismo dietro a una formula generica adottata spesso anche dai suoi cugini europei, “voglio un’Europa delle nazioni libere e sovrane”, “voglio un’Europa che non costringe i paesi ad accettare delle misure che vanno contro gli interessi vitali della loro sovranità o dei loro popoli”.

Un’Europa, ecco la sostanza, all’interno della quale gli stati devono lavorare ad alleanze flessibili, e dunque meno durature, e non a integrazioni vincolanti, e dunque più strutturate, e dove il percorso di allontanamento dell’Unione europea avviene a colpi di piccoli strattoni (Marine Le Pen, nel suo programma elettorale, ha delineato un percorso di mini Frexit che avrebbe portato allo smantellamento di fatto della costruzione comunitaria e il primo passo per andare in quella direzione coincideva con la proposta di uscita dal mercato europeo dell’elettricità).

Se si parte dall’assunto che un’Europa più forte è un’Europa più integrata, più solidale, capace di muoversi come un gigante politico e non solo come un gigantesco bancomat, si può dire che oggi tra i nemici dell’Europa del futuro compaiono ancora i leader dei partiti populisti, che nel migliore dei casi nascondono le proprie idee (effetto cipria) e nel peggiore dei casi spezzettano le proprie grandi battaglie in tante battaglie più piccole (le mini Frexit di Le Pen). E se si accetta di rispondere alla seconda domanda da cui siamo partiti – non solo chi sono i nemici dell’Europa, oggi, a parte Putin, ma anche chi sono i veri difensori dell’Europa, a parte l’Ucraina, che nell’Unione europea ancora non ci sta – si capirà che non è un caso se all’interno del nostro continente le voci più squillanti che difendono l’Europa sono voci che vengono dal mondo della sinistra progressista (pensate a Enrico Letta, per dire, o a Olaf Scholz, o a Pedro Sánchez). E il fenomeno è presto spiegato: l’erosione dei consensi dei partiti tradizionali di destra a favore dei partiti populisti e antieuropeisti ha trasformato le agende dei partiti conservatori in agende dannatamente corrose dal populismo antieuropeista. A volte il fenomeno si è prodotto in modo esplicito, altre volte il fenomeno si è prodotto in modo implicito. Ma alla fine dei conti il risultato è sempre lo stesso. L’incapacità da parte delle destre europee di essere pienamente emancipate dalla propaganda populista ha trasformato la difesa dell’Europa in una battaglia di sinistra. E l’assenza di solidi partiti conservatori, tranne in Germania, disposti a fare della difesa dell’integrazione europea una battaglia di buon senso, e non di parte, è uno dei temi più importanti che i grandi d’Europa dovranno affrontare quando nei prossimi mesi si ritroveranno di fronte ai nuovi e vecchi antieuropeisti. Con o senza cipria. Auguri.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.