Mark Oliver Everett, classe 1963, è la mente e la voce della rockband Eels (Ansa) 

Una canzone mi salverà

Francesca d'Aloja

Genio e depressione. La vita drammatica di Mark Oliver Everett, che invece di mollare ha scritto “Novocaine”
 

Fine anni Novanta, mi era entrata in testa una canzone che faceva così: “Novocaine for the soul, you’d better give me something to fill the hole…”. La canticchiavo in continuazione, fino a consumarla. L’uomo che invocava un anestetico, la Novocaina, per colmare la sua voragine, si chiama Mark Oliver Everett, e sebbene quei versi da lui scritti e messi in musica fossero rivestiti da un arrangiamento allegro e quasi ballabile, esprimevano un esplicito grido di dolore. 

 

Si tende a non considerare il testo di una canzone, quasi sempre si ascolta distrattamente, senza fare lo sforzo di comprenderne il significato che si rivela solo alla lettura. A me piace capire ciò che ascolto, (anche se a volte il senso mi sfugge, ancora mi chiedo cosa diavolo volesse dire John Lennon con il suo misterioso I am the walrus…), mi diverte tradurre mentalmente i testi inglesi in italiano (con risultati imprevedibilmente comici). In quello che scrive e canta Mark Everett, firmandosi prima con la sola iniziale E. e poi con il nome della sua band, gli Eels, non c’è niente da ridere, poiché quei testi parlano della sua incredibile, sventuratissima vita. 
È una storia triste questa, ma non preoccupatevi, è piena di bellezza, come ci ricorda lo stesso Mark: “This is the story of a man in great pain over great beauty”. Dopo essermi innamorata della discografia degli Eels, gruppo indie rock americano (dal ’96 a oggi sono quattordici gli album pubblicati, senza contare i live e le colonne sonore), e aver scoperto che tutto quel materiale era opera di un solo uomo, ho voluto saperne di più, intuendo che in quella forsennata produzione l’aspetto commerciale della musica c’entrasse poco o nulla. La ragione andava cercata altrove, in una casa borghese in Virginia, dove agli albori degli anni Sessanta, Mark era cresciuto insieme alla sua bizzarra famiglia: il padre Hugh, la madre Nancy e la sorella Elizabeth. 

 

Hugh non assomiglia a nessuno dei padri dei compagni di scuola del piccolo Mark: non ama lo sport, non frequenta amici, non gioca con i figli, non prepara grigliate in giardino, non indossa berretti né t-shirt. Quando non sta lavorando trascorre il tempo seduto sul divano a scrivere formule su un taccuino giallo, bevendo gin tonic e fumando senza sosta. Non si toglie mai la cravatta e non rivolge quasi mai la parola alla moglie, tantomeno a Mark ed Elizabeth. “Per me faceva parte del mobilio” dirà il figlio. Chi fosse quell’uomo misterioso e taciturno, Mark lo scoprirà anni dopo, troppo tardi per perdonare la sua assenza. “Parallel worlds, parallel lives” è il titolo (non casuale) di un interessante documentario della Bbc che racconta il viaggio a ritroso di un figlio alla ricerca del padre. Mark scopre suo padre e io, attraverso le immagini, scopro la storia della sua famiglia. 

 

Nato nel 1930, Hugh Everett III si distingue sin da giovanissimo nello studio della matematica e della fisica quantistica.  A dodici anni scrive una lettera ad Albert Einstein chiedendogli se l’esistenza dell’universo sia casuale. Lo scienziato risponde così: “Caro Hugh, non esistono una forza irresistibile e un corpo inamovibile. Ma sembra esserci un ragazzo molto testardo che si è fatto strada vittoriosamente attraverso strane difficoltà create da lui stesso. Cordiali saluti”. (Non so cosa ci abbia capito il dotato dodicenne, io, ben più matura, ho dovuto rileggere il messaggio di Einstein diverse volte senza arrivarne a capo). A ventisei anni, per la sua tesi di dottorato all’università di Princeton, Everett elabora una teoria affascinante: The many worlds theory, nella quale, per la prima volta, viene formulata l’ipotesi dell’esistenza di universi paralleli (fino ad allora il tema era stato affrontato solo da un punto di vista filosofico, con Giordano Bruno fra i precursori, e in seguito nella letteratura fantascientifica). “L’universo è un sistema complessivo isolato, composto da un sottosistema osservabile e dal sistema restante che lo osserva.” A partire dall’esperimento di Schrödinger (il famoso paradosso per cui un gatto è al tempo stesso vivo e morto), Everett postula l’esistenza di universi coesistenti fuori dal nostro spazio/tempo. Noi esistiamo in tutte le possibili combinazioni, e proprio come il gatto, l’individuo può essere morto in un universo e ritrovarsi vivo in un altro. Un’ipotesi che ne evoca un’altra, altrettanto affascinante: la possibilità di viaggiare nel tempo… 

 

Non essendo dimostrabile (e dunque nemmeno sconfessabile), la teoria dello scienziato non venne presa in considerazione dalla comunità scientifica dell’epoca (anche se cinquant’anni dopo è diventata materia di studio per molti fisici autorevoli, fra i quali Hawkins, che la definì “banalmente vera”). La profonda depressione seguita all’ostracismo dei colleghi costrinse Everett ad abbandonare gli studi accademici. Tuttavia il talento dimostrato gli valse l’assunzione al Pentagono in qualità di analista della Difesa degli Stati Uniti, per la quale lavorò fino alla sua morte, avvenuta per infarto a soli cinquant’anni. Il corpo dell’incompreso scienziato viene ritrovato dal figlio diciottenne Mark. È disteso sul letto, camicia bianca e cravatta, una gamba penzolante verso l’esterno a indicare l’inutile tentativo di sollevarsi. “L’unico contatto fisico che ho avuto con mio padre è stato con il suo corpo senza vita”. Le occasioni per comunicare si interrompono quel giorno. Molti anni dopo, seguito dalle telecamere della BBC, Mark tenta di esplorare la mente di suo padre attraverso le testimonianze dei colleghi di un tempo, ai quali chiede di illustrare la teoria che lo rese famoso e infelice, e solo allora capisce di essere figlio di un genio. Insieme al fantasma del padre emergono le altre figure della famiglia: la madre Nancy e l’amatissima sorella Elizabeth. Il racconto su di loro ha inizio di fronte alle rispettive lapidi in un cimitero in Virginia (ve l’avevo detto che era una storia triste…). L’incomunicabilità che per anni ha regnato in famiglia, ha prodotto seri scompensi emotivi che l’improvvisa scomparsa del padre ha reso ancora più profondi. Elizabeth, che da bambina era allegra e spensierata, diventa un’adolescente cupa. I segnali di un disagio psichico appaiono evidenti ma i genitori sembrano ignorarli. Quando Nancy trova la figlia agonizzante sul pavimento del bagno, osservando il flacone di sonniferi accanto al corpo, si limita a dire: “She’s asleep”, si è addormentata. Tocca a Mark occuparsi di tutto: ha soltanto sedici anni, ma sembra di gran lunga il più affidabile membro della famiglia. Tenta di rianimarla come ha visto fare nei film, e ordina alla madre imbambolata di chiamare l’ambulanza. Sarà il suo intervento tempestivo a salvarla (e su questo episodio, anni dopo, scriverà una delle sue più belle canzoni, Elizabeth on the bathroom floor). Il primo tentativo di suicidio di Elizabeth verrà così commentato dal padre: “Non sapevo fosse così triste”.

 

Mentre Elizabeth cercherà di lenire il dolore stordendosi di droghe e alcool, Mark si rifugia nella musica. Da quando la madre gli ha regalato una batteria giocattolo, comprata in un garage sale tanti anni prima, Mark non ha mai smesso di esercitarsi. Col tempo ha imparato anche a suonare il pianoforte e la chitarra e non c’è giorno che non trascorra a comporre canzoni nel basement di casa sua. Lo fa in maniera ossessiva, colmando il silenzio della famiglia con il frastuono dei suoi strumenti. Una strategia di sopravvivenza, adottata d’istinto pur di non sprofondare nella deriva autodistruttiva che sembra far parte del suo dna. Ma per salvarsi davvero Mark capisce che deve andarsene: indeciso fra New York e Los Angeles affida la decisione al caso e lancia in aria una monetina: la sua nuova vita ricomincerà in California.

 

Arrivato a Los Angeles senza alcun riferimento e senza conoscere una sola persona, inizia una spassosa peregrinazione nei contorti meandri dell’industria discografica, meravigliosamente raccontata nell’autobiografia Things the grandchildren should know pubblicato nel 2009 (e che mi auguro caldamente venga presa in considerazione da un editore italiano). Sì perché la dote principale di Mark Oliver Everett, oltre allo straordinario talento musicale, è il suo imprevedibile (viste le premesse) sense of humour con il quale condisce i drammatici capitoli della sua vita, come una spezia inattesa che trasforma una pietanza indigeribile in un piatto succulento. Lo stesso procedimento adottato nei suoi pezzi musicali: testi lugubri su musica allegra ma anche arrangiamenti malinconici su testi leggeri. Basterebbe leggere l’esergo del suo libro: questa è una storia vera, alcuni nomi e il colore dei capelli sono stati cambiati. O il capitolo sulle ceneri del padre, conservate a lungo in cucina e poi, su esplicita richiesta del defunto, (convinto di sopravvivere da qualche altra parte dell’universo), gettate nella spazzatura.  Mark ironizza anche sul fatto che i tanto agognati universi paralleli il padre li avesse già esplorati in vita… 

 

In un susseguirsi di incontri demenziali, promesse mancate, lavoretti per sbarcare il lunario, party losangelini ai quali Mark si presenta con almeno quattro cassette registrate dei suoi pezzi nel caso ci fosse qualche discografico fra gli invitati, love story con ragazze fuori di testa (quelle che Woody Allen definirebbe “kamikaze”, votate cioè a distruggere sé stesse e chi le affianca), il successo arriva inaspettato, proprio con il pezzo che mi si era ficcato in testa (ascoltatelo, non vi mollerà più), Novocaine for the soul. E finalmente tutta la fatica, le frustrazioni e i dubbi lasciano spazio alla certezza di aver scelto la strada giusta. 
Il video (davvero bellissimo) che accompagna la canzone contribuisce alla popolarità degli Eels. Si susseguono i concerti, il pubblico si affeziona alla strana figura di Mark, un ibrido punk nerd (porta occhiali spessi da quando da ragazzino fu trafitto da un laser degli effetti speciali durante un concerto degli Who…) che dimostra grandi doti interpretative (con gli anni i concerti di Mark diventeranno sempre più teatrali e il suo look cambierà frequentemente). 

 

Non fa in tempo a godersi i primi frutti del successo che il destino della famiglia Everett torna ad accanirsi: Elizabeth stavolta ce l’ha fatta, le pillole hanno prodotto l’effetto desiderato. Si è avverato quello che tanti anni prima aveva tramutato un gioco di bambini in sinistro presagio, un aneddoto raccontato nel libro. Mark ed Elizabeth stanno preparando l’albero di Natale: fra le palle multicolori, due portano inciso il loro nome. Per una stupida sfida col destino decidono che la prima che si fosse rotta avrebbe avuto come conseguenza la morte. Elizabeth stava dunque molto attenta a maneggiarle mentre Mark, dispettoso, si era messo a lanciarle per aria divertendosi a fare il giocoliere per far arrabbiare la sorella, finché una delle due cade a terra e si rompe. Il nome non era quello di Mark. 

 

La madre è rimasta sola e Mark è costretto a fare la spola fra la Virginia e la California cercando di onorare gli impegni contrattuali con la casa discografica che prevedono tour negli Stati Uniti e all’estero. La schizofrenica convivenza col dolore solitario e la frenesia della ribalta produce materiale per la prolifica discografia degli Eels: in tutti i suoi album Mark analizza la vita, i suoi lati crudeli e il lungo cammino intrapreso per non farsi travolgere. Il culmine viene raggiunto con Electro-Shock Blues considerato il capolavoro della band. È un disco catartico il cui tema centrale riguarda la perdita e la consapevolezza di essere l’unico sopravvissuto della famiglia. Già, perché nel frattempo anche Nancy se n’è andata, un anno dopo la figlia, uccisa da un cancro, e Mark, fino all’ultimo, si è dedicato a lei, cancellando tutti i suoi impegni. (Potrei aggiungere alla sequela di eventi tragici, il fatto che la cugina di Mark facesse l’assistente di volo sull’aereo che si schiantò l’11 settembre del 2001 sul Pentagono, dove un tempo lavorava lo zio Hugh, ma lo metto vigliaccamente fra parentesi). Una delle più strazianti riflessioni della sua autobiografia: “Quando devo riempire un modulo, alla voce: persone da contattare in caso di emergenza, non so mai cosa scrivere…”. 

 

Mark Everett sarebbe potuto finire male, magari lasciando scritto “la vita è una merda” sul suo eventuale biglietto di addio al mondo, non avendo nessuno a cui rivolgersi. E invece ha scelto di farcela, e per nostra fortuna (di chi già lo conosce, ma anche di chi, non conoscendolo, ascolterà i suoi dischi, magari dopo aver letto queste righe) il suo sconfinato repertorio, che ha significato la sua sopravvivenza, è a disposizione di noi tutti. Cominciate anche voi con Novocaine e poi passate a I got hurt.  Basterebbero anche solo queste due.

 

Ps: Fu Sandro Veronesi, tanti anni fa, a farmi conoscere Novocaine for the soul. Inoltrandomi nella vita di Mark Everett, non ho potuto fare a meno di pensare al protagonista del suo bellissimo romanzo Il Colibrì, che attraversa il dolore mantenendo intatta la sua purezza, proprio come fa Mark, del quale porta lo stesso nome, Marco. Eppure della vita di Everett S. non sapeva nulla, ma quando gliel’ho raccontata ha avuto un’illuminazione: “Finalmente ora capisco quei due secondi di nero assoluto che interrompono la canzone a metà. In quella drastica e totale assenza di suono, lui è in un universo parallelo”. Se l’avete ascoltata, capirete anche voi.

Di più su questi argomenti: