Renzi come Macron, si gira

David Allegranti

Giochiamo alla fiction: ecco cosa sarebbe successo se nel 2012 il leader del Pd fosse uscito dal partito

Dopo la vittoria di Emmanuel Macron in Francia, ottenuta anche grazie a un partito a immagine e somiglianza del fondatore, nato appena un anno fa, ha iniziato a serpeggiare fra i renziani il rimpianto di non averci provato anche in Italia. Matteo Renzi ha sempre tenuto nascosta la carta del partito personale, accarezzata già alle primarie fiorentine del 2009; in caso di sconfitta, sarebbe stata pronta una lista Renzi con cui affrontare gli avversari, Pd compreso. Un’ipotesi che nel corso degli anni si è riaffacciata. C’è stato almeno un momento in cui la nascita del PdR sarebbe stata possibile: dopo la sconfitta alle primarie del 2012 contro Pier Luigi Bersani. Renzi all’epoca era il sindaco di Firenze, era nella piena fase anti-establishment, non era ancora diventato segretario del Pd e non era ancora sbarcato a Palazzo Chigi, era una novità e la rottamazione era uno slogan che funzionava. Insomma, che cosa sarebbe successo se Renzi fosse uscito dal Pd e avesse fondato un suo movimento/partito con cui presentarsi alle elezioni politiche del 2013? Arduo sostenere che sarebbe andato bene. Anche perché avrebbe dovuto rinunciare alla struttura di un partito organizzato per ricrearne una da capo. Sì, c’erano gli amministratori locali messi insieme nel corso delle varie Leopolde, ma sarebbero stati sufficienti? Nel 2013, da una parte c’era il Pd, con la coalizione “Italia. Bene comune”, composta da una pletora di sigle (Sel compresa), dall’altra c’era il centrodestra con Pdl, Lega e Fratelli d’Italia. Naturalmente c’era il M5s, di cui ancora non era chiara la potenza elettorale, e Mario Monti, che occupava già uno spazio politico centrista che avrebbe fatto comodo a Renzi.

 



 

Rutelli: "Noi volevamo fare la stessa cosa di Macron, ma non ci siamo riusciti, perché in Italia c'era già il vero terzo polo: il populismo"

Dunque, che cosa sarebbe accaduto se Renzi avesse fatto “come Macron”? Sarebbe stato più forte o più debole? Riccardo Mazzoni, senatore verdiniano, toscano, uno che l’ha visto crescere in Toscana quando dirigeva il dorso locale del Giornale, dice che oggi sarebbe stato “sicuramente più forte. Perché era la novità e aveva il copyright della rottamazione. Era il Grillo dentro il sistema e poteva contendergli il popolo dell’antipolitica. Ha preferito prendersi tutto e subito restando dentro un comodo contenitore che poi in termini di voti gli è diventato una gabbia”.

 

C’è chi il Pd l’ha lasciato per davvero: Francesco Rutelli, che nel 2009 uscì per fondare l’Alleanza per l’Italia: “Se Renzi – dice l’ex sindaco di Roma – avesse fatto come Macron e avesse fondato un partito per conto suo, sarebbe stato lungimirante. Ma lui aveva bisogno del Pd e non poteva fare il Macron senza il Pd. Aveva l’occasione d’oro per rendere il Pd come la Margherita, quindi in prospettiva egemone, ma aveva bisogno di un gruppo dirigente, che non aveva e non ha, anche se io continuo ad augurarmi che se ne crei uno. Noi volevamo fare la stessa cosa di Macron, uscendo dal Pd, ma non ci siamo riusciti, perché intanto nasceva il vero terzo polo, il populismo italiano che, a differenza di quello francese, è impalatabile, comunicativo, sgusciante; in Francia hanno il populismo bolivariano di sinistra, Mélenchon, e quello di estrema destra, Le Pen. Il nostro populismo conquista anche i consensi del centro: Grillo si è collocato in un’area antisistema capace di prendere voti ovunque. In più in Italia non c’era una sinistra in condizioni catastrofiche come quella che, da Hollande a Hamon, si è ridotta al sei per cento. Al contempo, nel centrodestra italiano c’era la rapidità d’esecuzione e la bravura di Berlusconi in campagna elettorale, imparagonabile alle faide del centrodestra francese, con Juppé contro Sarkozy, fino alla disastrosa candidatura di Fillon”. Ecco, in un contesto del genere, prosegue Rutelli, “Renzi ha fatto bene ad appoggiarsi al Pd. Avrebbe potuto trasformare il Pd in uno strumento innovativo anche sul piano internazionale, ma l’adesione al Pse è stata una contraddizione in termini; aveva a disposizione, invece, la carta dei Democratici. Adesso si richiama a Obama, che però se n’è andato e, ricordiamolo, ha perso anche lui. Ha fatto il presidente otto anni, e ora c’è Trump. Oltretutto, i Democratici americani faranno sempre più riferimento alle posizioni di Bernie Sanders. Insomma quel treno s’è perso. Il Pd avrebbe potuto essere alleato dei socialisti – che oggi sono in frantumi ovunque, dalla Grecia alla stessa Francia – persino far parte del gruppo parlamentare in Europa, ma avrebbe dovuto essere anzitutto il punto di aggregazione sul piano internazionale, a partire da un’alleanza con i Democratici americani. Adesso però quella storia è finita, anche il partito democratico americano guarderà più all’interno che all’esterno”.

 

Orsina: "Renzi non sarebbe riuscito
a recuperare i voti
del Pd finiti a Grillo. Senza il M5s ci stato uno spazio enorme

Giovanni Orsina, storico e professore alla Luiss, dice che competere con uno veramente arrabbiato come Beppe Grillo sarebbe stato molto difficile, anche per Renzi. “Penso che non ci sarebbe stato stato spazio. Alle elezioni del 2013 avrebbe preso poco, magari fra il 5 e il 7 per cento. Anche perché Renzi sarebbe stato insufficiente a prendere i voti degli elettori arrabbiati per il governo Monti. Avrebbe potuto fermare l’emorragia di voti del Pd che sono andati a Grillo? No, il fondatore del M5s era molto più forte nella raccolta di voti dei cittadini che ce l’avevano con l’establishment. Come tribuno del popolo, era più radicale e arrabbiato di quanto Renzi non potesse essere. Certo, se non ci fosse stato il M5s ci sarebbe stato uno spazio enorme. Ma con Monti da una parte, che era una forza nuova, e i Cinque Stelle dall’altra, lo spazio per Renzi sarebbe stato ristretto. Avrebbe preso qualche punto percentuale in più, ma avrebbe dovuto allargarsi per contare qualcosa in un eventuale governo: a quel punto Renzi sarebbe stato a capo di una piccola forza, con il Pd che puntava a mangiarlo. Forse – ma siamo nel totale divertissement – Renzi avrebbe potuto essere il candidato di Berlusconi, diventando così, nel 2013, l’elemento di rinnovamento della risposta berlusconiana al populismo. Ma Berlusconi non gli avrebbe mai lasciato la scena, sarebbe rimasto come adesso, e sarebbe stato comunque riassorbito da una forza politica tradizionale”. Alla fine, insomma, Renzi fuori dal Pd avrebbe avuto poco spazio. “Perché Macron – spiega Orsina – è frutto del sistema istituzionale francese. Il punto cruciale è quello. In Francia c’è l’elezione diretta del leader, Macron ha vinto in una situazione straordinaria, con molta molta fortuna, e in particolare ha potuto approfittare del suicidio del Partito socialista e dell’omicidio molto mirato di Fillon. Macron è una creatura del modo di funzionare delle presidenziali francesi, molto più che dello scontro di partito. Le presidenziali nascono concettualmente, con De Gaulle, per essere sovrapartitiche: per questo il voto presidenziale ha sempre funzionato in maniera diversa rispetto al voto per i partiti. Anche in questo caso è accaduta la stessa cosa. Mentre Macron arriva alla presidenza della Repubblica con la legittimazione popolare, Renzi arriva al governo senza legittimazione, si è logorato e quando arriverà al voto, senza un sistema maggioritario, sarà già bollito”.

 



 

Calise: "Renzi
si sarebbe trovato
a suo agio soltanto
in un partito personale, ma aveva
un problema organizzativo"

C’è dunque una diversità, tutt’altro che secondaria ma centrale, che bisogna tenere conto nel racconto di questa ucronia renziana: il diverso sistema politico-istituzionale di Francia e Italia. Mauro Calise, politologo, autore di varie pubblicazioni su leadership e partiti personali (l’ultimo è “La democrazia del leader”, Laterza). Macron è, di fatto, il prodotto del sistema francese, che tanto per cominciare è semipresidenziale. Lì la nascita di un partito personale è fortemente aiutata. “Il partito personale – spiega Calise – ha due componenti, una comunicativa, l’altra organizzativa. La componente comunicativa ce l’hanno tutti, quella organizzativa Berlusconi e Grillo. Nel caso di Di Pietro, l’unica organizzazione era quella della famiglia. I micronotabili, da Di Pietro a Mastella, non sono mai andati avanti su larga scala. Ci ha provato Monti, che aveva con sé il favore dell’opinione pubblica sul piano comunicativo, ma era senza organizzazione. Berlusconi aveva le tv oltre che una grande capacità comunicativa, poi non dimentichiamo Mediolanum e Publitalia. Grillo è stato un genio dell’innovazione politica, ancora più di Berlusconi, visto che non ci ha messo i soldi. Ha creato un’organizzazione cybercratica che controlla tutto, dalla comunicazione in rete a quella in tv. Fatta questa premessa, il problema di Renzi era organizzativo. Aveva raggiunto un appeal per il quale poteva puntare al 15-20 per cento. Ed essendo un leader così forte si sarebbe trovato a suo agio solo nella struttura di un partito personale. Poi però come avrebbe messo in piedi un’organizzazione? Si sarà fatto i suoi conti e credo se li è fatti bene. La grande differenza con Macron è che Macron, dopo la ‘botta’ comunicazione si è preso direttamente l’istituzione. Trump si è mosso in autonomia, bypassando ed esautorando la struttura del partito repubblicano. Poi è arrivato alla Casa Bianca”. Nei partiti personali dunque “c’è una prima fase di assalto comunicativo, che poi però va incardinata su una istituzione, che sia la Casa Bianca o l’Eliseo. In Italia invece si va a incardinare su una presidenza del Consiglio che è ballerina. Con il senno di poi, è chiaro che ha sottovalutato l’odio dei fratelli coltelli. Forse lo sta sottovalutando ancora oggi. Se Orlando ricomincia a fare quello che ha fatto Bersani, se un segretario che ha preso il 70 per cento passa le sue giornate a vedersela con gli oppositori interni, se un giorno e l’altro pure ti minaccia, vuol dire che allora si possono fare solo partiti personali”.

 

Tarchi: "Una volta fuori dal Pd, si sarebbe dovuto alleare alla galassia centrista che appoggiava Monti, ma come metterla con l'austerità?"

In Italia, insomma, Renzi avrebbe avuto non pochi problemi, come osserva anche il politologo Marco Tarchi. “Certamente il lancio di un suo partito personale sarebbe stato fortemente osteggiato dal Pd, non solo ai vertici ma anche alla base, dove sono ancora molti i ‘fedeli alla linea a prescindere’, che lo avrebbero bollato come un volgare traditore. Avrebbe quindi dovuto collocarsi in una posizione più centrista – magari nobilitandola con la retorica del superamento delle vecchie categorie di sinistra e destra – e tentare di intercettare consensi già allora in libera uscita da un Pdl in piena crisi. Se però questa mossa gli fosse riuscita, ipotesi che non è da escludere, molto difficilmente avrebbe potuto fare diretta concorrenza al M5S, tanto più che le campagne di Grillo certamente lo avrebbero messo sotto tiro. E gli si sarebbe prospettata la spinosa necessità di scegliersi – e di indicare – degli alleati di coalizione, per sfruttare le possibilità della legge elettorale allora vigente. Dato che il Pd non sarebbe stato disponibile, l’unica aggregazione possibile sarebbe stata quella con i frammenti della microgalassia centrista che appoggiava Monti, ma dato il dissenso netto dalla linea governativa dell’austerità, anche questa strada sarebbe stata ardua, se non sbarrata. Quindi è difficile ipotizzare che sarebbe stato più forte di oggi”.

 

Per Arturo Parisi, figurarsi, Renzi non sarebbe uscito neanche dalla Toscana. “Con molta probabilità non sarebbe stato neppure rieletto sindaco di Firenze”. Non avrebbe rubato voti a Grillo? “Solo un po’. Ma il suo totale sarebbe rimasto identico. La marcia di Renzi non è stata solo una marcia attraverso le istituzioni ma una marcia di governo. Da Palazzo Medici a Palazzo Chigi passando per Palazzo Vecchio”.

 

Insomma, un vero disastro. “Macron e Renzi – dice Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes – sono diversi: uno proviene dall’alta amministrazione, l’altro è un politico puro. Entrambi hanno fatto battaglie politiche, ‘scalando’ un paese e un partito. Macron – superando uno dei suoi maestri, Rocard – ha considerato il Ps una causa persa, da non combattere. Ha colto il momento perfetto, aiutato anche dal fattore C. Il 2012, dopo una sconfitta interna, era veramente il momento giusto in Italia? Ne dubito. Secondo me non avremmo avuto la candidatura di Monti, ma la proposta centrista e liberal-ottimista di Renzi 2012 non avrebbe mai sfondato al Sud. Avremmo avuto lo stesso il Movimento 5 Stelle, forse con un po’ meno voto giovanile. Poi, una situazione di paralisi che sarebbe stata peggiore per Renzi, soprattutto per una ragione: l’avrebbe vissuta da ‘insider’ del Parlamento. Difficile dire cosa sarebbe stato meglio per l’Italia, perché le variabili dell’interesse nazionale dal 2012 a oggi (Libia, Draghi, banche, immigrazione) sono troppe, ma penso che, nella prospettiva di Renzi, sia stata tatticamente giusta la scelta del partito”. Ora che Renzi si è definitivamente preso il Pd, non ci sono più le condizioni perché lo lasci. Oltretutto, l’ex sindaco di Firenze nel corso degli anni ha perso presa sull’elettorato berlusconiano, come osserva Mattia Diletti, professore all’Università La Sapienza: “Penso che non avrebbe avuto successo. Nel prendersi il voto tradizionale del centro-sinistra che il Pd garantisce, Renzi ha avuto più benefici che danni. In più Renzi non avrebbe avuto lo stesso consenso dall'alto (alcuni ambienti dei media, dell’economia e delle istituzioni) che lo ha accompagnato nella ‘presa’ del Pd. Quello spazio lo occupava, a suo modo, Monti (che non ha tutti i torti nel pensarsi simile a Macron, per quanto la cosa possa apparire persino divertente). La forza di Renzi è stata quella di vivere delle debolezze altrui stando dentro il Pd, fin dai tempi di Firenze. Ambiziosamente, ha anche perseguito il miraggio, e continua a farlo, di portare a casa un pezzo di elettorato berlusconiano, prendendo i voti in libera uscita: gli è andata sempre male, ma credo che non vi sarebbe riuscito nemmeno uscendo dal partito. la cassaforte dei voti Pd è un porto troppo sicuro per andare in mare aperto, la barca era già stata smossa a sufficienza con la rottamazione”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.