Il vero Macron italiano

Claudio Cerasa

L’Italia è senza un Macron perché ha scelto di rinunciare allo schema francese, sacrificando doppio turno e partito della nazione. Per avere una leadership simile ora ne servono due. Guida (ottimista) al modello Macaron, con Renzi e Berlusconi

Non vorremmo essere brutali e mettere di malumore tutti coloro che in queste ore stanno osservando ingolositi la favolosa traiettoria del nuovo presidente della Repubblica francese, ma per quanto si possa essere ben disposti e ottimisti verso il futuro del nostro paese (e Dio sa quanto lo siamo in questo giornale) bisogna dire la verità: dispiace, ma un Emmanuel Macron, in Italia, potete pure scordarvelo. Potete scordarvelo non perché l’Italia sia priva di politici che possano essere considerati all’altezza di un Macron. Ma perché la classe dirigente del nostro paese, negli ultimi vent’anni, ha scelto di eliminare dal terreno di gioco tutti gli elementi che avrebbero reso possibile la nascita di un Macron. Niente ballottaggio. Niente monocameralismo. Niente vincitori alle elezioni. Niente partito della nazione. L’Italia ha avuto oggettivamente l’occasione di poter far crescere un suo Macron, ovvero Matteo Renzi, ma il tentativo di introdurre un ballottaggio, di superare il bicameralismo, di combattere la frammentazione con la competizione, di regalare al paese un solo vincitore, di costruire un partito della nazione è stato allegramente bocciato (ma tra un mese arriva la riforma di D’Alema, state sereni) e il risultato oggi è quello che tutti abbiamo sotto gli occhi: per avere un Macron, in Italia, non basta un solo leader, ma ne servono almeno due.

 

Il doppio turno francese, come sappiamo, permette ai leader di essere trasversali e di creare grandi coalizioni alle urne. Il sistema politico italiano (almeno quello attuale che salvo piccole modifiche resterà tale fino alle prossime elezioni) non permette a nessuno di vincere le elezioni e invece che avere una candidatura sul modello Macron (leader unico) dovremmo rassegnarci a sognare fortissimamente una candidatura sul modello Macaron (leader in formato due pezzi). Non è forse il massimo della vita ma è certamente il massimo che si può ottenere in questa fase politica in cui gli elettori hanno scelto non di governare la frammentazione ma di farsi governare da essa e per sperare che un giorno possa prendere forma una leadership sul modello Macaron occorre che almeno politicamente accadano due cose. La prima riguarda il centrosinistra. Il Partito democratico può avere molti difetti e sicuramente li ha ma il combinato disposto formato dalla vittoria di Renzi alle primarie e dalla fuoriuscita dei grillozzi e dei bersanozzi e dei dalemozzi dal partito mette il Pd in una posizione unica in Italia: quella di alternativa naturale e potenziale alle forze anti sistema, nazionaliste, protezioniste, anti globalizzazione del paese. Bisogna vedere se Renzi avrà la forza di sfruttare il giusto posizionamento che ha il Pd.

 

Ma non c’è dubbio che per essere naturalmente alternativi al modello Di Maio e Associati al Pd conviene affermare in modo chiaro la propria identità, non mescolarsi con altri partiti ed evitare alleanze prima delle elezioni. Le elezioni, come dimostra Macron, si vincono guardando più al centro che all’estremo e non è un caso che un minuto dopo il risultato francese il Berlusconi cane da tartufo, annusando il terreno, ha capito perfettamente il rischio che corre oggi Forza Italia: regalare a Renzi gli elettori che cercano un’alternativa naturale ai movimenti anti sistema. Berlusconi lo ha capito e per questo ha indicato al centrodestra una direzione diversa rispetto al passato, l’unica naturale, forse, per contendere al Pd gli elettori che guardano più al centro che all’estremo: essere alternativi a tutte le forze anti sistema, da Grillo fino a Salvini, e prepararsi così ad andare alle elezioni senza accozzagliarsi con i fronti nazionali all’amatriciana.

 

Dario Franceschini, intervistato ieri dal Corriere della Sera, ha detto giustamente che “la stagione in cui centrodestra e centrosinistra dovevano aggregare anche le forze estreme per battere l’avversario con un voto in più è finita” e ha ammesso che oggi “cambiare schema è un gesto di responsabilità” perché “è finita l’epoca in cui il centrosinistra poteva pensare che il centrodestra non lo riguardasse”. In Francia e in Italia, in fondo, gli schemi di gioco sono gli stessi e aveva ragione anni fa Pietro Ichino (2012) a dire prima di tutti che la nuova divisione dell’occidente è tra chi intende contrastare la globalizzazione ripristinando sovranità e frontiere nazionali e chi ne accetta la sfida attrezzando il proprio paese per trarre dalla globalizzazione il massimo beneficio e indennizzando chi nella sfida perde qualcosa. Avere un sistema capace di valorizzare i nostri Macron sarebbe stato l’ideale. Ma in mancanza di quel sistema, e per evitare di mettere in mano il paese a una banda di cialtroni, accontentiamoci del nostro Macaron. In fondo potrebbe persino non essere così male.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.