Giovanni Messe (1883-1968) comandante di un corpo d’armata speciale durante la campagna di Grecia

Giovanni Messe dopo Badoglio

Maurizio Stefanini

Dalle battaglie della Grande guerra a Gladio: fu lui l’ultimo maresciallo d’Italia. Tenne testa agli inglesi in Africa e a Mussolini

Giusto settant’anni fa, il 27 marzo del 1947, fu posto in pensione Giovanni Messe: l’ultimo maresciallo d’Italia, e l’unico a prestare servizio anche per la Repubblica. Erano stati tredici in tutto i generali insigniti del super-grado inventato da Mussolini nel Giorno della Vittoria, il 4 novembre, del 1924, in origine per insignire i due comandanti in capo della Grande guerra, Luigi Cadorna e Armando Diaz. Comandante delle truppe in Tunisia messo ormai con le spalle al muro dopo che i tedeschi avevano deciso di arrendersi, Messe rifiutava però di cedere se gli Alleati non gli concedevano l’onore delle armi: non un semplice puntiglio, ma anche a garanzia che i suoi uomini finissero nei campi di prigionia anglo-americani, piuttosto che in quelli durissimi francesi. “Cessate il combattimento. Siete nominato Maresciallo d’Italia. Onore a Voi e ai Vostri prodi”, fu il telegramma con cui infine il 12 maggio 1943 Mussolini pose fine all’impasse. Assieme ai tredici marescialli d’Italia, però, in Italia c’erano sempre stati in quantità altri marescialli. Parola che deriva dall’alto tedesco antico-francone per indicare un semplice addetto (“skalk”) ai cavalli (“mahr”), il maresciallo infatti da noi era sempre stato quel sottufficiale di grado superiore al sergente e immediatamente inferiore agli ufficiali, che corrisponde al Feldwebel della terminologia tedesca e russa, o allo staff sergeant – sergent chef di quella anglo-francese. Adesso ci si diventa anche da giovani con una scuola apposita, ma in passato il maresciallo era un sottufficiale anziano. Come ci ricordano poi tanti film di Totò e Vittorio De Sica, oltre ai più recenti telefilm con Gigi Proietti e Terence Hill, è il maresciallo dei carabinieri colui che tradizionalmente rappresenta per gli italiani la prima interfaccia dello stato. Su questo equivoco linguistico giocò Giovannino Guareschi nel 1952 in un fotoromanzo apparso in 47 puntate su Candido e che si intitolava “La figlia del maresciallo”. E’ la storia di Anita Perlini. il cui padre è appunto un sottufficiale della Sussistenza. In vacanza nell’Urss per imparare la lingua, la ragazza viene arrestata perché scambiata per la figlia del maresciallo d’Italia Messe, venuta a carpire segreti militari. Portata da Stalin, gli parla del nostro miracolo economico con fervore tale che questi si incuriosisce e decide di seguirla nel nostro Paese: un viaggio surreale, che permette soprattutto a Guareschi di sfruttare i suoi famosi baffi per esibirsi come irresistibile sosia del dittatore. Tutta da ridere, ovviamente.

 

L'unico militare della storia italiana, ricorda il figlio, ad aver ricoperto tutti i gradi della gerarchia: dal più umile al più importante

Il maresciallo d’Italia Giovanni Messe, però, una figlia femmina l’aveva davvero: Filomena, detta Lena. E anche un maschio di nome Gianfranco, che di professione ha fatto il radiologo. Classe 1928, portata più che bene. A quanto ci racconta, in realtà sulla possibilità di confusione con gli umili sottufficiali si scherzava anche in casa di un maresciallo d’Italia. “C’era la storiella del maresciallo che in treno si metteva a chiacchierare con un compagno di scompartimento, simpatizzavano, e poi si presentavano. ‘Sono maresciallo’. ‘Sono maresciallo anch’io’. ‘Che piacere! Un collega’. Solo che poi all’arrivo in stazione si vedeva che ad aspettare uno dei due c’era una gran folla, e l’altro scopriva così di aver conosciuto un maresciallo di qualifica superiore”. Il fatto è però che Messe prima di essere maresciallo d’Italia era stato anche maresciallo nell’altro senso, e prima ancora soldato semplice. Ultimo dei marescialli d’Italia per nomina e per vigenza del grado, unico maresciallo d’Italia ad aver servito la Repubblica, come tiene a ricordaci il figlio fu anche l’unico militare di tutta la storia italiana ad aver ricoperto tutti i gradi della gerarchia: dal più umile al più importante.

 

“Se avesse scritto la sua autobiografia, Messe avrebbe potuto raccontare la storia militare italiana della prima metà del Novecento”, ha scritto Sergio Romano. Nasce a Mesagne, provincia di Brindisi, il 10 dicembre del 1883. Padre scrivano presso un panificio, madre una filatrice, lui si ferma alla quinta elementare. Qualche lavoretto precario, poi nel 1901 si arruola, seguendo il sogno di riscatto di molti meridionali. Allievo sergente, corrispondente appunto a soldato semplice. Caporale dopo sei mesi, poi caporalmaggiore, il 30 giugno del 1903 è promosso sergente e subito lo mandano in Cina, dove un corpo di spedizione italiano ha appena partecipato alla spedizione multinazionale per salvare gli occidentali dalla furia dei Boxer. E’ un po’ la guerra all’Isis dell’epoca, e Messe vi rimarrà fino al 1905. Si comporta bene e lo ammettono al corso speciale per sottufficiali allievi a Modena. Maresciallo nel 1908, nella accezione più umile del termine, partecipa al concorso per fare l’allievo ufficiale, arriva primo su 300 concorrenti, e dal 17 settembre del 1910 è sottotenente di Fanteria. In tempo per la guerra di Libia, dove prende la sua prima decorazione, e diventa tenente, poi capitano. Solo nel 1916 è mandato sul fronte dell’Isonzo, come comandante di un battaglione. Decorato una seconda volta e poi una terza, dal 1917 è maggiore. Ferito più volte, proprio durante una degenza in ospedale conosce la crocerossina Maria Antonietta Venezze. E’ una storia da romanticismo di guerra in pretto stile “Addio alle armi”, e proprio nella stessa epoca e zona, che però a differenza del romanzo di Hemingway avrà una fine lietissima, dal momento che quell’aristocratica di Castelfranco Veneto sposerà il figlio dello scrivano diventato eroe di guerra. “Ho la casa ancora piena delle sue lettere”, ci racconta il figlio. “Magari tutti i giorni no, ma almeno un giorno su due lui prendeva carta e penna e le scriveva. Qualunque fosse il fronte in cui si trovava”.

 

La resistenza sul Piave ha bisogno di gente come lui, e il 16 gennaio del 1918 diventa comandante di Arditi: prima del VI, poi del IX Reparto di assalto della 18esima Divisione. Sono i suoi uomini che il 16 giugno del 1918 sul Grappa prendono Col Moschin in dieci minuti, catturando 250 prigionieri con 27 ufficiali e 17 mitragliatrici: un’impresa ancora ricordata nel nome del 9° Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”. A Messe il famoso disegnatore Achille Beltrame dedica il 21 luglio 1918 una copertina della Domenica del Corriere, con il bersagliere Ciro Scianna che durante un assalto muore tra le sua braccia baciando il tricolore. Il 26 ottobre del 1918, durante un assalto tra il monte Asolone e il Col della Beretta, Messe si trova circondato con pochi uomini. Combattono disperatamente ma stanno per soccombere, quando vengono salvati dal grosso del reparto, che si era già messo al sicuro ed è tornato indietro a recuperarli. La guerra è agli sgoccioli, ma il 29 ottobre fa ancora in tempo a essere ferito a una gamba da una bomba a mano. Arrivato alla sesta medaglia, quando nel 1919 torna in servizio è promosso tenente colonnello.

 

Cinque mesi di prigionia, poi gli Alleati lo portarono a Brindisi per imporlo come capo di stato maggiore del nuovo esercito del sud

“Oltre che tutti i gradi, mio padre si è fatto anche tutti i fronti di guerra, salvo la Spagna e Fiume”, ci ricorda il figlio. “Soprattutto il non essere andato a Fiume può sembrare strano, visto che era stato comandante degli Arditi. Ma non gli piacevano le imprese troppo ideologiche: aveva giurato fedeltà al re, e mantenne il giuramento fin quando Umberto II non lo sciolse dopo il 2 giugno”. Nel 1920 va invece il Albania, dove si prende una settima decorazione e una malattia. Poi è assegnato al comando di un reggimento di bersaglieri, nel quale scopre un giovane soldato napoletano con il talento per il teatro, e lo incoraggia a organizzare spettacoli per le truppe. Il nome: Eduardo De Filippo. Nel 1923 è aiutante di campo del re, nel 1927 colonnello, nel 1935 generale di brigata nella guerra italo-etiopica. Addetto all’Ispettorato delle truppe celeri, comandante della Terza divisione celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta”, nel 1939 torna in Albania, come vice comandante del corpo di spedizione che procede all’occupazione. Non è un’impresa particolarmente gloriosa, ma Messe è decorato comunque per l’ottava volta, e in Albania diventa comandante di un corpo d’armata speciale durante la successiva campagna contro la Grecia. Neanche là ci facciamo una gran bella figura, ma Messe è tra i pochi che ne escono a testa alta, anche perché è tra i pochissimi che riescono a parlare al Duce senza paura. “Sono compiaciuto di vedere i soldati italiani impavidi farsi massacrare”, gli dice una volta Mussolini. “Veramente i soldati, non sono fatti per farsi massacrare… così dimostrano di non saper fare la guerra”, gli risponde asciutto l’eroe di Col Moschin. Che sarà comunque promosso generale di corpo d’armata.

 

A quel punto gli affidano il Csir, il Corpo di spedizione italiano in Russia. Parte il 15 luglio 1941, e in Russia Messe si guadagna non solo una nona decorazione italiana, ma anche una decima e un’undicesima tedesche. Sua, in particolare, è quella “manovra di Petrikowka” con cui vengono catturati 8.000 soldati sovietici e che contribuisce in modo decisivo alla presa di Kiev. Ma Messe si ostina a contraddire Mussolini, e in particolare si oppone all’idea di elevare la consistenza del corpo d’armata a un’intera armata. “Non possiamo essere da meno della Slovacchia e di altri stati minori; gli risponde il dittatore. “Io debbo essere al fianco, del Führer in Russia come il Führer fu al mio fianco nella guerra contro la Grecia e come lo è tuttora in Africa. Il destino dell’Italia è intimamente legato a quello della Germania”. Ma Messe protesta: già non si riesce a dare mezzi adeguati ai 60.000 uomini del Csir, figuriamoci i 200.000 dell’Armir! “Il comando tedesco ha promesso che agevolerà in tutti i modi l’armata italiana, della quale, quasi certamente, farà parte anche una divisione corazzata tedesca. I tedeschi hanno firmato con noi nuovi e precisi accordi. In occasione dell’invio dell’armata li rispetteranno sicuramente”, insiste Mussolini. “I tedeschi, finora, non hanno mai rispettato le convenzioni firmate tra i due governi; specialmente per ciò che si riferisce ai rifornimenti e al numero dei treni per i bisogni del Csir. E’ stata una lotta continua, di tutti i giorni, per ottenere dagli alleati il rispetto degli impegni assunti”, denuncia Messe. Insomma, quando il 10 luglio del 1942 il suo Csir è inquadrato nella nuova Armir, comandante dell’armata al di sopra di lui è designato il più malleabile Gariboldi. A novembre quindi Messe lascia anche quell’incarico e torna in Italia, dove comunque gli danno la promozione a generale d’armata e un’altra decorazione tedesca: la dodicesima delle sue medaglie.

 

Quando a febbraio lo mandano in Tunisia a comandare l’ultimo ridotto di resistenza in Nord Africa, Ciano nel suo Diario lo definisce “un colpo mancino tiratogli da Cavallero per sbarazzarsene, poiché anch’egli deve essere convinto che in Tunisia non ci sono per noi possibilità di sorta e vuole che Messe, in una partita disperata, perda la sua reputazione e magari finisca in un campo di prigionia”.

 

L'impresa al Col Moschin, e poi l'Albania, l'Etiopia e, nella Seconda guerra mondiale, la guida del corpo di spedizione in Russia

Con 100.000 uomini e appena 17 carri armati contro i 500 di Montgomery, Messe deve affrontare la tenaglia tra gli inglesi che arrivano da est e gli americani che spingono da ovest. Eppure, il 6 marzo a Médenine gli italo-tedeschi passano alla controffensiva. Rommel non sopporta Messe, e il 9 marzo se ne torna in Germania. Gli Alleati però non lo sanno, e quando Messe ferma la loro avanzata sul Mareth la Bbc attribuisce il successo al genio militare della Volpe del deserto. “Nella loro prosopopea non ammettono di essere stati battuti da un generale italiano”, commenta Messe, che a parte la già citata promozione in extremis a maresciallo d’Italia in Tunisia ottiene la sua tredicesima medaglia. In realtà, quando lo scoprono gli inglesi ne rimangono invece ammirati. L’immagine di Messe come “miglior generale italiano della Seconda guerra mondiale” nel mondo anglo-sassone è ad esempio conservata nel Videogame per cellulari “Glory of Generals”, dove il suo valore è poco meno della metà di quello di Eisenhower, il più potente tra i condottieri in campo. E poi la metà di Rommel, Nimitz e Zukov, ma più del conquistatore di Roma Clarke, di Wavell, di Tito e anche dei francesi De Gaulle e Gamelin. Che gli Alleati comincino a coltivare su Messe qualche progetto è dimostrato dalle domande che al momento della resa gli fece il neozelandese generale Freyberg. “E’ un fascista il maresciallo?”. “Naturalmente”. “Naturalmente? Perché?”. “Perché il Re che ho l’onore di servire accetta un capo di governo fascista. Se lo accetta il mio Re, naturalmente lo accetto anch’io”. Portato prigioniero a Oxford, Messe viene sistematicamente spiato, ma quel che dice impressiona molto. “Noi siamo generosi, noi poi in fondo non sappiamo odiare. La nostra anima è fatta così, perciò io ho sempre sostenuto che noi non siamo un popolo guerriero, un popolo guerriero odia”.

 

Rimarrà prigioniero solo cinque mesi. Il tempo che il re rimuova Mussolini, faccia l’armistizio e dichiari la cobelligeranza, e il 7 novembre gli inglesi lo riportano a Brindisi, per imporlo capo di stato maggiore generale del nuovo esercito del sud, anche contro l’aperta e gelosa ostilità di Badoglio. Tra mille difficoltà, Messe riuscirà comunque a riportare le truppe italiane in prima linea, e a organizzare i lanci di armi e materiali ai partigiani via paracadute. Né dopo il 1947 si limita a godersi la pensione. Convinto del pericolo sovietico, è lui uno dei primi ad avere l’idea di una struttura segreta di resistenza da affidare a ex partigiani anticomunisti: insomma, quella che poi diventerà Gladio. Per lo stesso motivo, in contrasto con la tradizionale e ufficialmente apolitica Associazione combattenti e reduci costituisce un’Unione combattenti d’Italia, di cui diventa presidente. E con quel serbatoio di voti si butta in politica: nel 1953 è eletto senatore della Democrazia cristiana; nel 1956 passa al Partito monarchico popolare di Achille Lauro; nel 1958 è il primo dei non eletti col nuovo Partito democratico italiano in cui si sono riunificati i due partiti monarchici; nel 1961 subentra come deputato, per passare poi al Pli di Giovanni Malagodi, con cui è rieletto nel 1963. Muore il 18 dicembre del 1968.

 

Come ci ricorda il figlio, nel paese natale decidono subito di dedicargli un busto. Ma poi cambia amministrazione, ci ripensano, e la scultura finisce in casa di un nipote. Negli anni successivi gli dedicano tre convegni, e a uno di questi il busto viene esibito. Senza però ancora finire nella piazza cui era stato destinato. In compenso, è stata dedicata a Messe la sezione proprio di quell’Associazione combattenti e reduci di cui l’ultimo maresciallo aveva sfidato il monopolio.