Le tensioni di questi anni in Svezia hanno rivelato la fragilità e la debolezza della polizia che non ha né forze né leggi adeguate (foto LaPresse)

La leva militare

Stefano Cingolani

Svezia infelice. La società del benessere s’è ristretta ed è meno sicura di sé. Crescono le tensioni con l’islam e la Russia. Così torna la naja

Il governo di Stoccolma ha deciso di tornare alla leva obbligatoria. E Peer Enqvist è d’accordo: “La neutralità è un’utopia che non possiamo più permetterci”, commenta. Il ragazzo, appena ventenne, frequenta il corso di teoria politica in una delle università più prestigiose del nord Europa, già tempio di teologi e oggi serbatoio per la classe dirigente. Anders Huss, invece, è decisamente seccato: “Dici così perché non tocca a te andare sotto le armi l’anno prossimo. Io ricordo mio padre ufficiale della riserva già avanti con l’età che doveva partecipare alle esercitazioni. Ai suoi tempi il modello era la Svizzera, adesso diventa Israele, perché la leva riguarda anche le ragazze”. “E allora? Non potete certo escluderci, parità in tutto”, lo interrompe Helle Lindgren fresca di esami in “politica estera femminista”. “Io in Russia ci sono stata e anche in Israele con mio padre – aggiunge – E vi dico che Peer ha ragione”. “Noi come Israele? Non scherziamo, posso vedere il nemico esterno, ma dove sono i palestinesi?” incalza Anders. “Non li leggi i giornali, non ti guardi attorno? Trump s’inventa le notizie, ma non ha tutti i torti. Vengo da Malmö, abito in un quartiere borghese, però la sera esco solo in gruppo”, lo contraddice Hedda Ericsson. “Non siamo più il paradiso nordico – sospira – l’estrema destra è il secondo partito e forse andrà al governo dopo le elezioni dell’anno prossimo”.

 

Lo stato sociale
è ridimensionato
dalla crisi, e oggi vacillano altri tre pilastri: il pacifismo, l’accoglienza
e la moderazione politica

È un dialogo vero, con nomi e luoghi inventati perché il dibattito pubblico svedese è tuttora ovattato, anche se la realtà sta provocando un brusco risveglio. Lo stato che tutti accudisce dalla culla alla tomba è stato ridimensionato dalla crisi e oggi vacillano altri tre pilastri: il pacifismo, l’accoglienza e la moderazione politica. Quanto è diversa la Svezia del XXI secolo da quella che aveva fatto sognare i socialisti dell’Europa occidentale?

 

Le minacce della Russia e il prevedibile disimpegno americano in Europa, hanno fatto suonare il campanello d’allarme per la sicurezza esterna. Nell’autunno scorso sono stati spostati a Kaliningrad nella Prussia orientale (la vecchia Königsberg patria di Immanuel Kant diventata enclave russa dopo l’occupazione sovietica del 1945) i missili Iskander con una gittata da 500 chilometri che possono raggiungere la Svezia. Non solo, le continue provocazioni aeree e navali rischiano di trasformare il Baltico di nuovo in un grande bacino bellico. E l’esercito svedese si trova impreparato.

 

La leva obbligatoria è finita nel 2010 quando era al culmine l’illusione che la Svezia non avesse più nemici, nemmeno nell’arcirivale Russia. Anche se Vladimir Putin aveva già manifestato chiaramente le proprie intenzioni espansionistiche e l’Ucraina era già una ferita purulenta, il governo di centrodestra aveva più che dimezzato il bilancio della difesa tagliandolo dal 2,6 all’1,1 per cento del prodotto lordo. L’ingresso nella Nato di Lituania, Lettonia ed Estonia, che Mosca ha considerato una provocazione inaccettabile, dava a Stoccolma l’impressione che l’occidente avesse alzato a sufficienza le difese. Insomma, l’ombrello atlantico era aperto di fatto sull’intero Baltico. Oggi ci sono circa 50 mila soldati e ne mancano 7 mila per mantenere il livello ordinario; molti di più se la situazione internazionale peggiora e si decide un incremento consistente degli effettivi. Intanto, giovedì 2 marzo il governo socialdemocratico sostenuto anche dai Verdi ha fatto un primo passo introducendo di nuovo la naja. Non si tratta ancora di una misura massiccia. La cartolina precetto andrà solo a 13 mila ragazzi e ragazze che hanno superato i 18 anni, tra questi ne verranno scelti 4 mila in base alle attitudini e alla volontà (cioè è sempre possibile dire no a differenza dalla coscrizione vera e propria), poi il numero crescerà progressivamente fino a raggiungere gli 8 mila o anche più entro il 2023.

 

Una scelta prudente, dunque, ma netta che segue il dibattito sull’eventuale adesione alla Nato. Il governo rosso-verde guidato dall’ex sindacalista Stefan Löfven, ha incaricato un diplomatico di lungo corso di condurre una inchiesta a tappeto per esaminare i pro e i contro. L’indagine ha scoperto a sorpresa un’ampia opinione favorevole, spinta soprattutto dal timore della Grande Russia putiniana. Il governo ha deciso di non farne niente, anche perché Mosca si è fatta subito sentire. E un incontro tra i ministri degli Esteri Margot Wallström e Sergej Lavrov, ha fugato ogni dubbio.

 

Cartolina precetto
per 13 mila ragazzi
e ragazze. Ampia opinione favorevole all’adesione alla Nato, ma Mosca si è fatta subito sentire

La Svezia resta fuori, neutrale ma non sola. È finita l’epoca dei non allineati, però nessun vuol tornare nemmeno agli anni Quaranta quando le truppe naziste attraversavano il paese tra un complice silenzio per invadere la Norvegia o quando i giovani svedesi si arruolavano volontari per difendere la Finlandia dai russi e consegnarla ai tedeschi in quella che è stata chiamata “la guerra d’inverno”. Una scelta vissuta oggi con un diffuso senso di colpa. La partecipazione alla Seconda guerra mondiale venne evitata anche perché la popolazione era sostanzialmente contraria. A un sondaggio Gallup del 1945 che chiedeva se la Svezia dovesse intervenire in caso di massacri tedeschi in Norvegia, il 47 per cento rispose “no”, il 33 per cento “sì” e gli altri “non so”. A loro riscatto ci sono tutte le testimonianze sull’impegno personale di molti svedesi per accogliere i profughi o gli ebrei perseguitati, mentre la diplomazia veniva usata per esercitare finché possibile una certa mediazione. Lo stesso ruolo svolto anche dopo che l’Unione sovietica aveva occupato l’Europa nord-orientale. Raoul Wallenberg, membro di una delle famiglie più ricche e potenti, protesse molti ebrei nell’Ungheria nazista e venne poi ucciso o imprigionato dai russi nel 1945. Il suo nome è inserito tra i Giusti.

 

La Norvegia è diventata indipendente dalla Svezia nel 1905 e i rapporti tra i due paesi vicini sono sempre rimasti complessi. Stoccolma non ha mai riconosciuto la legittimità del regime fantoccio di Quisling; la corrispondenza ufficiale venne sempre indirizzata dal ministro svedese degli Esteri a “The Royal Norwegian Government – London”, ma alla morte del rappresentante norvegese in Svezia, nell’ottobre 1940, venne rifiutato l’accredito a un nuovo ambasciatore. I norvegesi sono membri della Nato, come pure i danesi; gli svedesi, invece, considerano ancora la diplomazia l’arma più efficace. Per un secolo il paese non ha fatto guerre e la classe dirigente spera che possa continuare così, anche se i più realisti si rendono conto con amarezza che non potrà durare a lungo. Davvero viviamo in tempi bui, “quando discorrere d’alberi è quasi un delitto” e anche gli ecologisti meditano su quel che scriveva Bertolt Brecht nel 1939 “a coloro che verranno”, e non si oppongono alla prudente via verso il riarmo.

 

Il ricordo delle rivolte nei ghetti di Malmö
e Göteborg. Nessuno però pensa di usare l’esercito per fini
di sicurezza interna

Nessuno pensa di usare l’esercito per fini di sicurezza interna, come avviene in altri paesi europei, anche se le tensioni di questi anni hanno rivelato la fragilità e la debolezza della polizia che non ha né forze né leggi adeguate. Le rivolte nei ghetti a Malmö, a Göteborg, a Stoccolma, nel 2008, nel 2010, nel 2013, nel 2015, con cadenza regolare; l’irrompere di una microcriminalità diffusa in un paese che ne era stato sostanzialmente immune; i conflitti culturali, in famiglia, nella scuola, sui posti di lavoro; un islam sempre più assertivo se non proprio fondamentalista, tutto ciò ha reso più difficile la convivenza, tenendo anche conto che in Europa la Svezia ha in percentuale il maggior numero di abitanti provenienti dall’estero: il 15 per cento è nato altrove, circa un milione e mezzo su dieci milioni di residenti (quasi 900 mila hanno ottenuto la cittadinanza), ma se includiamo anche i figli nati da genitori stranieri, si arriva al 20 per cento.

 

Gli ultimi incidenti sono avvenuti due giorni dopo l’uscita di Trump. “Avete visto cosa è successo venerdì in Svezia”, aveva avvertito minacciosamente il presidente. Solo che non era accaduto nulla. Ancora. Ironia della sorte oppure The Donald ha anche poteri premonitori. Fatto sta che il 20 febbraio verso le otto di sera la polizia entra nel quartiere di Rinkeby alla periferia di Stoccolma, già teatro di due rivolte nel 2010 e nel 2013, e arresta uno spacciatore vicino alla stazione. Scatta subito il tam tam e di lì a poco si raduna un gruppo di giovani che comincia a bruciare auto e devastare vetrine di negozi (per lo più retti da immigrati). Arriva un’auto della polizia ed è subito bersagliata da pietre,; un agente esce e spara, ma non colpisce nessuno. Un fotografo e alcuni giornalisti vengono aggrediti anch’essi dai rivoltosi e se la vedono brutta alcuni passanti che tentano di calmare gli animi. Tutto finisce con qualche fermo e un poliziotto leggermente ferito. Nulla di che, insomma, ma il fuoco è uscito di nuovo dalle ceneri.

Trump aveva citato un reportage trasmesso nel corso di Tucker Carlson Tonight su Fox News, girato dal cineasta Ami Horowitz, durante il quale due poliziotti svedesi parlavano di “un incredibile aumento della violenza da parte dei rifugiati”. Uno di essi, Anders Görazon, ha spiegato che le frasi sono state tagliate e montate fuori contesto. Non è di questo avviso Katie Hopkins, l’inviata del Daily Mail la quale, piena di fervore, si è messa a girare come una trottola il paese (con una puntata anche a Rinkeby) raccogliendo testimonianze le più disparate: dal vigile del fuoco che si lamenta perché in certe zone bande di giovinastri tagliano le gomme agli automezzi dei pompieri, alla donna di mezz’età spaventata dai ladri in casa, alla giovane che non esce più di notte o al poliziotto in pensione il quale giura che tutti i crimini oggi vengono commessi da “Ali Mohammed, Mahmod, Mohammed, Mohammed Ali, Muhammad e ancora Ali”, tutti provenienti da “Iraq, Iraq, Siria, Turchia, Siria, Afghanistan, Somalia, Somalia, Siria e ancora Somalia”.

 

Che la violenza quotidiana sia aumentata nessuno lo mette in dubbio (anche se le indagini ufficiali smentiscono ogni visione apocalittica), ma che sia attribuibile a “gang di rifugiati siriani” fa parte dello spirito del tempo alimentato dai Democratici svedesi (Sverigedemokraterna, Sd), il partito di destra che oggi viene dato al secondo posto nei sondaggi, dopo i socialdemocratici. Il clou dell’inchiesta della Hopkins, che ha avuto eco anche sui quotidiani svedesi, è proprio un’intervista con Mattias Karlsson, capogruppo parlamentare di Sd, che sembra un Salvini biondastro e sciorina il suo credo: la migrazione di massa non porta integrazione, il multiculturalismo è morto, la Svezia sta commettendo un errore clamoroso e se ne pentirà. “Grazie a Sd – conclude l’inviata d’assalto – per aver portato questa realtà al centro del dibattito”. Il giornalismo anglosassone è fatto anche così. Ma è quel che pensa quasi un elettore su quattro.

 

Nessuno mette
in dubbio che sia aumentata la violenza quotidiana. Sulla paura di perdere l’identità,
il paese si spacca

La Svezia ha perso un’altra delle sue peculiarità e la dinamica politica assomiglia a quella di tutti gli altri paesi europei. Sd, fondato da Jimmie Åkesson nel 1988 sul ceppo di un piccolo nucleo neonazista, è diventato negli ultimi anni una rigogliosa pianta xenofoba e neo-nazionalista. Per timore di rimanere tagliata fuori, Anna Kinberg Batra, la leader del Moderata Samlingspartiet (traducibile letteralmente in Partito di unità moderato), che resta la principale forza politica conservatrice, ha pensato di aprire le porte a un’alleanza di destra. Ipotesi che ha diviso i suoi sostenitori (sono aumentati i consensi al più piccolo partito liberale), ma potrebbe trovare gambe sulle quali camminare se di qui al settembre 2018, quando si terranno le elezioni politiche, il governo non avrà dato risposte alla questione più controversa: perché l’integrazione modello svedese non ha funzionato.

 

Può darsi che dipenda dal fatto che ha prodotto ghetti, proprio come è accaduto con le banlieu francesi. Può avere dato un contributo importante la crisi. Già nel 1991 il crac delle banche aveva scagliato un primo colpo ed era toccato a un socialdemocratico blairiano come Göran Persson rivedere il welfare state all’insegna del risparmio e dell’efficienza. Da allora le cose sono peggiorate, nonostante l’effimero boom della bolla internet e la ripresa vigorosa dopo la recessione del 2008-2009. Fatto sta che la società del benessere si è ristretta e ha lasciato scoperte le frange periferiche della popolazione. Anche se la disoccupazione è minore rispetto al resto d’Europa, i giovani meno istruiti sono una sacca emarginata che entra in conflitto (talvolta anche fisico) con i figli degli immigrati o anche i nuovi arrivati (sono stati accolti 275 mila richiedenti asilo) tenuti nel limbo della mancata integrazione. Putin fa paura, basti pensare che il governo ha deciso anche di installare una postazione militare sull’isola di Gotland al centro del mar Baltico, battezzata “la Danzica dei nostri tempi” (tutti i giochi di guerra dicono che i russi sono in grado di occuparla in mezz’ora). Tuttavia è sulla paura di perdere l’identità che si spacca la Svezia, è questo il terreno sul quale si svolge una competizione tra partiti che non era mai stata così aspra.

 

Anche le sorti della politica svedese dipendono da quel che accadrà quest’anno in Francia e in Germania. Ma se pure l’onda populista venisse fermata e a Stoccolma si formasse una coalizione in grado da erigere una diga, occorre dare risposte ai giovani di Rinkeby così come alla classe media insicura e depressa. Nessuno può nascondere la testa sotto le candide nevi del nord. Se ne rendono conto gli studenti di Scienze politiche che in questi giorni sono impegnati in un seminario sullo scarso appeal della democrazia tra i giovani di oggi. Per capirlo non basta l’economia o la geopolitica, c’è bisogno di una battaglia culturale che le società opulente hanno rinunciato a combattere.

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