Foto via Wikimedia Commons

I Cadorna d'Italia

Stefano Cingolani

Non solo il generale di Caporetto. Nella nostra storia politica non si contano i vincitori dileggiati e gli sconfitti osannati

Il 24 ottobre 1917, poco dopo l’alba, le difese italiane della II armata collocata tra la conca di Plezzo e Tolmino sull’Isonzo (oggi in Slovenia), vennero assaltate dai reparti austro-tedeschi. Bombe come mai prima, gas sconosciuti e incursori armati di mitragliatrici leggere devastarono le trincee su un fronte di circa 40 chilometri. E cominciò Caporetto. Ancor oggi, dopo valanghe di scritti, inchieste parlamentari, saggi, romanzi, film, documentari televisivi, l’evento non è consegnato alla storia. Una battaglia perduta, sia pur catastrofica, è diventata una metafora nutrita di miti, dallo “sciopero militare” alla rivolta dei “proletari in divisa” (una sorta di mini rivoluzione d’ottobre), dai generali felloni agli italiani paciocconi e pacifisti, dai governi imbelli a un re incapace di difendere la nazione. Il caporettismo è una categoria platonica che fa pendant al cadornismo, sussunzione ideale dell’uomo sulle cui spalle riposa la grande colpa: il generale Luigi Cadorna. Il caporettismo è una tara storica e morale, sinonimo di codardia, di doppiezza e di viltà. Il cadornismo è l’antico vizio di gettare le responsabilità sugli altri, di non ammettere i propri errori, di cercare altrove l’agnello da sacrificare, finendo paradossalmente per diventare l’unico capro espiatorio.

    

Il caporettismo, sinonimo di doppiezza e viltà. Il cadornismo, l'antico vizio di non ammettere le proprie responsabilità

A cento anni di distanza molte cose restano oscure, sostengono gli storici, ma soprattutto nessuno riesce ancora a capire la reale successione causale: furono Caporetto e Cadorna, un evento reale e una persona in carne e ossa, a creare le proprie proiezioni metaforiche che durano ancora, o viceversa? La sconfitta sarebbe stata gravissima, ma non così divisiva se non si fosse inserita in un modo d’essere, uno spirito collettivo, una rappresentazione nazionale che la precedeva. E il generale battuto sul campo, vittima dei propri errori, sarebbe rimasto un alto ufficiale tirannico, aristocratico lombardo, figlio d’arte (il padre Raffaele guidò la presa di Roma nel 1870) con un approccio ancora ottocentesco alla guerra (la carne da cannone, le spallate, le avanzate a tutti i costi, le fucilazioni sul campo dei potenziali disertori) e non l’immagine di una intera classe dirigente. Quante Caporetto si sono susseguite in questi cento anni di storia patria? E quanti Cadorna? L’elenco è sterminato, ma sono sufficienti alcune icone in una rapida carrellata: da Mussolini a Craxi, da Berlusconi a Monti per arrivare fino a Matteo Renzi, capi osannati e poi dileggiati, comandanti in capo autorevoli e autoritari, trasformati in reprobi senza se e senza ma. Altre battaglie rovinose non hanno avuto lo stesso percorso, tanto meno in altri paesi. Restando alla Prima guerra mondiale, basti ricordare la catastrofe dell’esercito austriaco in Galizia contro i russi nel 1914, responsabile il generale Conrad von Hötzendorf, lo stesso che lancerà la Strafexpedition, la spedizione punitiva bloccata dagli italiani in Trentino nel 1916; per non parlare di Gallipoli, sulla sponda europea nello stretto dei Dardanelli, dove una catena di marchiani errori militari commessi dai comandi britannici e alleati (australiani e neozelandesi) provocò 250 mila vittime (tra morti e feriti) per mano dei turchi. Sul fronte francese, la controffensiva del generale Nivelle s’infranse contro la linea Hindenburg in quel drammatico 1917 in cui il collasso della Russia faceva pendere la bilancia a favore degli Imperi centrali, e provocò l’ammutinamento di 40 mila soldati.

    

Altre culture, altre classi dirigenti, altri popoli sono stati capaci di trasformare débacle epocali in successi, magari con l’aiuto della propaganda, si pensi a Dunkerque oggi celebrata in un film di successo. Ebbene, l’Italia no, gli italiani amano crogiolarsi nell’adorazione della propria pusillanime debolezza, salvo poi vantare che solo nelle catastrofi riescono a trovare le energie per rinascere dalle ceneri. E gettare al vento i propri successi, come accadde con la vittoria nella Prima guerra mondiale. Il fascismo ha rimosso Caporetto esaltando l’Italia di Vittorio Veneto, l’Italia post-fascista, pacifista e conciliatoria ne ha fatto un memento mori. Oggi si celebrano quegli eventi ripercorrendo miti e riti, riproponendo sempiterne lacerazioni politiche e ideologiche. Finora il centenario ha prodotto in prevalenza microstorie, studi settoriali o specialistici. I lavori più recenti che sollevano questioni di fondo sono il saggio di Nicola Labanca, docente all’Università di Siena e specializzato in storia militare, intitolato semplicemente “Caporetto” (il Mulino) che ripercorre anche i filoni spesso contraddittori, di caporettologia. Con approccio per molti versi opposto c’è “La verità su Caporetto”, di Paolo Gaspari, che si occupa della Grande guerra nel progetto di ricerca patrocinato dalla presidenza della Repubblica e aveva già pubblicato nel 2011 “Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata”, secondo il quale non fu una rotta, ma un ripiegamento strategico tutto sommato ben gestito, una versione non molto diversa da quella propagandata da Mussolini nel 1924 quando per una sorta di risarcimento nominò maresciallo d’Italia anche Cadorna e non solo Diaz, il vincitore di Vittorio Veneto. Utilizzando l’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito che contiene le deposizioni degli ufficiali fatti prigionieri, Gaspari rivaluta l’onore della truppa e dei comandi di grado inferiore, ma, a differenza della propaganda fascista, getta altra legna sul fuoco infernale nel quale bruciano gli alti comandi e cominciare dal Capo che il 28 ottobre in un bollettino imbarazzante per tutti, per il governo italiano e per gli alleati anglo-francesi che chiesero la sua testa, gettò la colpa sui soldati “vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”.

    

La metafora di Caporetto oscura tutto, persino il successo finale. E non è stata la culla di una nuova consapevolezza nazionale

Cadorna emerge come il principale imputato anche nel libro antologico curato da Stefano Lucchini, studi di economia, esperto di comunicazione aziendale (Montedison, Enel, Eni, Intesa Sanpaolo) con una spiccata passione per la storia. Il titolo è accattivante quanto provocatorio (“A Caporetto abbiamo vinto”, Rizzoli editore), e il volume verrà presentato il 24 prossimo, il giorno del centenario, nella sala Aldo Moro della Camera dei deputati. L’idea di fondo è che la grande sconfitta sia stata un male dal quale nasce un bene; fatta lezione dei clamorosi errori da lì è nata poi la riscossa sul Piave e sul Grappa, fino a Vittorio Veneto, come sostenne anche Mario Isnenghi nel suo saggio “La tragedia necessaria. Da Caporetto all’8 settembre”, pubblicato nel 1999. Scrive Lucchini nella prefazione: “Potremmo dire che occorreva una disfatta come quella di Caporetto per liberare l’Italia dalla dittatura di Cadorna, arrivare a una riorganizzazione sotto la guida del generale Diaz, risparmiare ai soldati inutili assalti, assicurare riposi e avvicendamenti. Fu tutto questo che rese possibile la vittoria”.

    

Il Capo supremo che voleva decidere tutto in splendida solitudine e non ammetteva intromissioni nemmeno da parte del re, porta sulle sue spalle le responsabilità principali. Tuttavia non è il solo. Il comandante della II armata, Luigi Capello, non era meno rigido di Cadorna, anche se con lui si trovava spesso in disaccordo, non tenne la testa a posto, tanto che, malaticcio, si allontanò persino dal fronte. Nessuno diede rilievo alle informazioni che venivano da spie e disertori (tra i quali un ufficiale operativo dell’esercito austro-ungarico) che permettevano di prevedere con buona approssimazione l’attacco, il luogo, i giorni, la strategia di fondo. Cadorna disse che sarebbe avvenuto in primavera sottovalutando l’abitudine tedesca a combattere anche con il freddo e pessime condizioni meteorologiche. Insomma, la catena è lunga e col senno di poi persino paradossale. Tutto questo emerge nelle testimonianze alla commissione d’inchiesta ripubblicate nell’antologia. Dunque, niente risarcimenti a Cadorna; anzi, secondo Lucchini piazze e strade, come quella sul monte Grappa, che portano il suo nome dovrebbero essere dedicate piuttosto al figlio Raffaele che fu il comandante del Corpo volontari della Libertà durante la Resistenza partigiana. Nessun oblio della memoria, semmai la consapevolezza che la storia procede per onde lunghe non solo per eventi eccezionali. Il Capo è rimasto vittima della propria presunzione aristocratica e di una visione strategica superata. I tedeschi lo avevano già dimostrato in Francia e ripeterono la tattica in Italia quando vennero in aiuto agli austriaci stremati e quasi vinti dalle undici spallate cadorniane che avevano portato alla conquista di Gorizia e avvicinato gli italiani a Trieste. Cannoni più potenti, nuove armi d’assalto, un decentramento operativo pur nell’unità del comando, gli attacchi a cuneo oltre le linee per spezzarne l’unità, insomma tutto ciò che gli esperti di arte militare hanno a lungo vivisezionato. Tuttavia Caporetto è anche il condensato dell’Italia liberale che va in guerra nonostante il Parlamento, che firma accordi segreti pieni di velleità imperialiste come il Patto di Londra un mese prima di dichiarare le ostilità contro l’Austria e la Germania, e poi di fronte alle difficoltà non riesce a raggiungere nessuna “union sacrée” alla francese, anzi si divide, si frantuma (vennero cambiati tre governi, Salandra, Boselli e Orlando), si dilania fino a consumare se stessa aprendo le porte a un altro mito, quello della vittoria mutilata, che alimenterà il nazionalismo fascista.

 

Gli italiani amano crogiolarsi nell'adorazione della propria debolezza, salvo poi vantare la capacità di rinascere dalle ceneri

Mussolini che nel suo Diario di guerra aveva colto molte di queste profonde lacerazioni, una volta al potere nasconde l’Italia di Caporetto per esaltare quella di Vittorio Veneto. Il suo generale di riferimento sarà Pietro Badoglio, il quale, anche se tra i principali responsabili della rotta (al comando del XXVII corpo d’armata), non venne nemmeno messo sotto tiro dalla commissione parlamentare. Il conte Cadorna, che non aderì mai al fascismo, confessò a Olindo Malagodi, l’esponente liberale direttore della Tribuna, che Badoglio, generale di umili origini subito allineatosi al nuovo regime, era protetto dalla massoneria (la conversazione è pubblicata nella antologia di Lucchini). La Prima Repubblica allontana la Grande guerra per esaltare la Resistenza come patto fondante di una nuova Italia. A partire dagli anni 60 emerge il filone pacifista e populista, quello della nazione contadina trascinata a forza nel grande mattatoio dell’Europa imperiale. Escono dagli archivi le voci dal basso, torna, sia pure in forma meno propagandistica di come l’avevano messa Leonida Bissolati e Curzio Malaparte (lo sciopero militare), la rivolta strisciante e silenziosa degli uomini che gettano i fucili durante la fuga verso la fine della più ingiustificabile di tutte le guerre: tutti a casa. In anni più recenti il lavorio di scavo ha portato alla luce archivi dimenticati come quello dell’esercito, o le voci degli altri, dei nemici, traducendo memorie e testimonianze austriache e tedesche a cominciare da quelle degli alti ufficiali (erano noti solo i racconti di Erwin Rommel, non del tutto accurati perché la volpe del deserto era anche una volpe dell’auto propaganda). E tuttavia, opere da certosino o grandi affreschi come quelli di Giorgio Rochat e Mario Isnenghi (La Grande guerra 1914-18, il Mulino) non riescono a far scendere il mito all’altezza della storia. La metafora di Caporetto oscura tutto, persino il successo finale. E’ senso comune alimentato dai manuali scolastici che a Vittorio Veneto non siano stati gli italiani a vincere, ma gli austriaci a squagliarsi. C’è un fondo di verità, ma l’avanzata venne preparata e condotta con grande capacità e il rovesciamento degli equilibri avvenne già sul Grappa. Armando Diaz passò dalla guerra offensiva a un conflitto difensivo, dallo schieramento rigido lungo un territorio estremamente vasto (dallo Stelvio all’Adriatico) a una tattica flessibile concentrata tra le Prealpi e il Piave. Non vanno sottovalutati gli aiuti stranieri (francesi e inglesi, poi americani), né il tracollo tedesco e soprattutto quello austro-ungarico. Tuttavia la resistenza sulla linea del Piave e il cambio di dottrina militare furono le premesse per lo slancio finale e una vittoria mal digerita dagli stessi alleati e mal gestita da Vittorio Emanuele Orlando alla conferenza di Parigi del 1919.

 

Un’altra storia? No, è sempre la stessa. Anche quando l’Italia-Fenice risorge dalle ceneri e meraviglia tutti coloro che l’avevano data per morta anzitempo, getta al vento i propri successi. Come per il cadornismo, gli esempi non mancano, dal miracolo economico fino alle riforme degli ultimi anni, ardite, ma pur sempre incompiute. A Caporetto abbiamo vinto, dunque? Seguendo il filo tracciato da Lucchini, potremmo dire di no, o almeno non ancora. Non solo perché un’altra generazione di storici si cimenterà con documenti e ricordi ancora vivi tra Veneto e Friuli (basta andare sulle Dolomiti o sul Carso e balzano agli occhi anche dei più ignari turisti). Ma perché Caporetto non è stata la culla di una nuova consapevolezza nazionale. Non lo sono state nemmeno Vittorio Veneto, la Seconda guerra mondiale o la Resistenza.

 

Nei saggi di Labanca e Gaspari due diversi giudizi sulla disfatta. Cadorna principale imputato nel libro antologico curato da Lucchini

Le piaghe del Novecento sanguinano ovunque, sia chiaro. La Spagna ha rimosso il franchismo, non lo ha elaborato e il conflitto con la Catalogna sta portando alla luce questa verità rimasta sotto il tappeto. La Francia ha cancellato per lungo tempo Vichy, cinque anni di collaborazionismo e le deportazioni degli ebrei. Lo spettro di Hitler viene evocato tra le nebbie dell’Elba e quello di Stalin sulle melmose rive dello Dnieper. Il secolo più crudele è vivo e non solo in Europa. Tuttavia l’Italia continua a essere lacerata nel profondo. Basta il dissenso su una legge sia pur importante come quella elettorale perché tutti accusino di golpe tutti gli altri. Caporetto si staglia davanti a noi come il luogo in cui finì il sogno liberale e risorgimentale, per lasciare il posto all’incubo di un totalitarismo che proprio come un fiume del Carso ora emerge esplicito, ora s’immerge per nascondersi sotto l’effimero potere del popolo, sovrano, ma sempre per procura.