Ritornano gli Stati?
La de-globalizzazione va di moda, come il populismo. Ma le nazioni sono più forti se interdipendenti
Professor Cassese, è cambiato il vento? Si parla di ritorno allo Stato e di riscoperta dello Stato.
E’ vero. Sono di moda la de-globalizzazione, l’ascesa degli Stati forti, il neo-nazionalismo populistico, la riscoperta dei confini. C’è qualcuno che pensa che la globalizzazione funzioni nella fase espansiva, non in quella recessiva. E’ singolare che siano idee affermatesi innanzitutto nei paesi anglosassoni, dove persino il termine “State” era, fino a pochi anni fa, o sconosciuto o poco utilizzato. Sono punti di vista erronei. Sono, infatti, basati sull’idea che, entrata, a suo tempo, in scena la globalizzazione, sono usciti di scena gli Stati. Invece, globalizzazione e Stati hanno convissuto. La globalizzazione è, anzi, figlia degli Stati, che hanno trovato conveniente mettere in comune alcune funzioni.
E poi?
Poi, i regolatori globali si sono imposti agli Stati, ma sempre mantenendosi a buona distanza, rispettandoli. Più tardi sono entrati in scena la società civile globale, gli NGO (Non Governmental Organizations), le comunità epistemiche, che costituiscono i terzi attori.
Perché si è sviluppata tanto l’ideologia della globalizzazione?
Perché la globalizzazione ha suscitato aspettative di circolazione illimitata di finanza, beni e persone, di sparizione dei confini, di emancipazione dei cittadini dagli Stati, di espansione illimitata dei diritti.
Rispetto a queste aspettative, qual è stata la realtà?
Partiamo dai fatti. La situazione mondiale consolidatasi nella seconda metà del XX secolo è stata originata dalla reazione ai disastri della prima metà del secolo. Ricordo soltanto che la Prima e la Seconda guerra mondiale hanno fatto circa 85 milioni di morti nel mondo, la maggior parte nel teatro europeo. Nella seconda parte del secolo vi sono state guerre parziali, ma non così tragiche come le due guerre mondiali, nello scacchiere europeo. Nel periodo della globalizzazione il mondo ha fatto progressi enormi. La popolazione mondiale era nel 1950 di due miliardi e mezzo di persone. E’ oggi di sette miliardi e mezzo di persone. Viviamo, quindi, in un mondo molto più affollato. Le aspettative di vita alla nascita, globalmente, erano nel 1950 di 48 anni; sono nel 2015 di 71 anni. La popolazione che vive in democrazie è passata dal 31 per cento nel 1950 al 56 per cento nel 2015. La popolazione mondiale in condizioni di povertà estrema è passata dal 72 per cento nel 1950 al 10 per cento nel 2015. Dunque, la globalizzazione si è accompagnata con un enorme progresso nel mondo. Aggiungo che è grazie alla globalizzazione che una parte dell’Asia e dell’Africa ha iniziato a svilupparsi: apertura dei prodotti locali ai mercati globali, delocalizzazioni, “joint ventures”, prodotti della globalizzazione, hanno reso meno iniqua la distribuzione della ricchezza nel mondo.
Ma questo progresso è dovuto tutto alla globalizzazione?
Certamente no. Anche perché nella parola globalizzazione convergono molti fenomeni. Viene, in primo luogo, l’interdipendenza tra le nazioni. In secondo luogo, la convergenza degli interessi nazionali, che richiede la creazione di “condomini”. In terzo luogo, l’istituzione di ordini globali, di regolatori sovranazionali. Infine, l’ampliamento delle forze dello Stato, che possono espandersi, se operano insieme, oltre i confini nazionali: ad esempio, con il controllo del terrorismo globale, o la disciplina delle acque del mare, o il controllo del riscaldamento del globo terrestre. Voglio dire che la globalizzazione è un fenomeno complesso. E’ prodotto dal multilateralismo, che nasce dal bisogno di cooperare. La cooperazione discende dalle interdipendenze. Interdipendenze e cooperazione spingono verso la globalizzazione.
Ma è stato davvero un grande successo?
Sa che gli storici stanno scoprendo la storia globale? Essi suggeriscono di invertire il rapporto: non è la globalizzazione che si impone agli Stati, ma sono gli Stati che hanno frenato lo sviluppo globale del mondo.
Ma in che cosa concretamente si manifesta la globalizzazione?
La globalizzazione avviene in modi che non cogliamo per la debolezza dei nostri occhiali. Per esempio, attraverso quella che uno studioso tedesco ha chiamato “orchestrazione”, cioè la determinazione globale di obiettivi che funzionano da “consensus builders” e “agenda setters”. C’è poi il nuovo concetto di “sustainability”, che fa entrare la dimensione temporale tra gli obiettivi globali, perché richiede effetti duraturi. Un altro esempio è costituito dallo slittamento di alcuni concetti. Ad esempio, l’autodeterminazione dei popoli era una volta intesa come un diritto dei popoli alla indipendenza verso altri Stati. Oggi è invece diventato il diritto di scegliere un governo, un vero e proprio “diritto alla democrazia”. Ci sono, poi, i quasi duemila sistemi regolatori globali e i più di cento giudici globali, che dialogano sia con gli Stati, sia con individui e operatori economici all’interno degli Stati. Questo è il fenomeno più vistoso, quello dell’Onu dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Fao, dell’Organizzazione internazionale del lavoro, dell’Organizzazione mondiale della sanità, del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, e così via.
Quello che lei presenta è un quadro molto ottimistico. Ma c’è ora il ritorno al nazionalismo e al protezionismo. Il Regno Unito esce dall’Unione europea. Gli Stati Uniti d’America invitano a investire in prodotti americani, a comprare americano, Ungheria e Polonia chiudono le frontiere all’immigrazione. La sovranità del popolo è invocata per contrastare la globalizzazione.
Non vorrei che facessimo le parti di Florestano ed Eusebio (ricorda gli scritti musicali di Schumann?). Io preferisco la parte del Maestro Raro. E le dico che si possono dare diverse interpretazioni di questi nuovi fenomeni. Suggerisco di considerare tre aspetti. Primo: quali dimensioni ha il protezionismo annunciato rispetto alla globalizzazione in atto? Non si ingigantisce un fenomeno relativamente limitato? Secondo: se la globalizzazione è costruita seguendo il criterio kantiano del reciproco interesse, ogni tentativo nazionalistico troverà delle controspinte. Terzo: quel che succede nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America è pieno d’ambiguità. Il Regno Unito, prima mezzo fuori, in futuro sarà mezzo dentro l’Unione europea. Gli Stati Uniti di Trump ora insistono sul bilateralismo, ma questo viene ad inserirsi sull’ordinamento multilaterale del mondo. Quindi, bilateralismo e multilateralismo conviveranno.
Capisco le ambiguità della politica, non capisco come possano conviverci le imprese.
Torniamo ai due opposti personaggi del grande Schumann. Le loro idee convivono, hegelianamente opponendosi. Vuole la migliore illustrazione? L’ha data Jeff Immelt, amministratore delegato di quella grande multinazionale americana che è General Electric, in uno scritto del 27 febbraio scorso, che è stato pubblicato in italiano proprio sul Foglio qualche giorno dopo. Egli osserva con apprezzamento che ci sono un ritorno al nazionalismo economico, una spinta all’interventismo statale, specialmente per aiutare i lavoratori nazionali nel settore manifatturiero, politiche per sostenere le esportazioni americane. Aggiunge che la delocalizzazione è una tattica del passato, che quella in corso non è la fine della globalizzazione, ma solo la fine delle élite globalizzate della finanza, che le istituzioni globali vanno solo ammodernate. Conclude dicendo che preferisce il multilateralismo e il libero commercio. Vede che neo-interventsimo statale e globalizzazione ammodernata convivono e sono accettate da una grande multinazionale.
Si può dire, come fa anche Antonio Pilati, che nasce un nuovo tipo di globalizzazione, non oligarchica?
Questo è un fenomeno in atto da tempo. Basta vedere quale apertura hanno le organizzazioni internazionali alle cosiddette organizzazioni non governative. Alle riunioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio partecipano migliaia di organizzazioni non governative, che rappresentano la società civile. C’è poi anche una seconda componente, quella relativa al peso della cultura angloamericana. Con le tendenze isolazionistiche che si affermano nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America sembra di vedere la fine del secolo anglo-americano, che ha egemonizzato il mondo. Ed è naturale, ora che diventano protagoniste mondiali anche la Cina, l’India, l’Unione europea, che il mondo diventa più multipolare.
L'editoriale del direttore