Balthus, Montecalvello e altri silenzi

Rubina Mendola

di Giovanni Giannone, Caracol, 96 pp., 10 euro

Evento mirabile della pittura del Novecento, artista puro, bricoleur che componeva soprattutto togliendo, misconosciuto o ignorato dal midcult a differenza dei bestseller Basquiat, Klee, Escher o Pollock, Balthus è amato nelle più ritrose trappe o oubliettes dell’iniziazione a una pittura elevata. Quindi non sembra impossibile che sia trascorso quasi un decennio dall’ultimo saggio critico in italiano dedicato a Balthus, che invece col nostro paese ha vissuto una relazione culturale di vivacità inesausta. Si può dire che “Balthus, Montecalvello e altri silenzi” è un rimedio all’ingratitudine, attirando l’attenzione sul castello che il pittore scelse come spazio contemplativo.

 

Per la ricognizione di questo legame, Giannone sceglie la conversazione sotto forma di saggio e viceversa, intervistando il primogenito di Balthus, il Principe Stanislas Klossowski de Rola, per scoprire le relazioni tra Montecalvello e la poetica balthusiana. Il testimone illustre non si abbandona a rievocazioni di bibelots e a nessuna parlerie sconfinata o autoriferita, anzi offre una rigogliosa fioritura di memorie, attestazioni oggettive degli intenti più sinceri del padre.

 

Giannone non casca nelle trappole consuete del ricercatore, l’agiografia e la biografia romanzata e “gustosa”, ma solleva l’inattualità reale e non sloganistica dell’artista, l’emergenza di un Balthus votato a demistificare e sprovincializzare la pittura dai malanni contemporanei (l’aneddotica, l’istanza psicologica, il cruccio didattico, la demenza provocatrice) e da un’idea di arte come sorgente magico-terapeutica di salvazione.

 

Questo prezioso libello è un vademecum di poetica pittorica e un esorcismo verso le bêtises sulla storia dell’arte, ma anche una lotta contro l’ostinato pregiudizio naturalistico-moralistico dell’arte come inchiesta conoscitiva e sociale.
Ai ritmi di una conversazione travolgente si uniscono quelli analitici del saggio, fino a non distinguerli, e al contrario di certa architettura in cui il discorso teorico è “portentoso” ma l’edificio finito rimane invivibile, il testo di Giannone regge, per ricchezza e sostanza, alla prova di realtà ancorandosi ad altre voci del manifesto-Balthus: contro il culto della personalità, il disprezzo per la parola “artista”, i miti graditi al palato delle massaie (ispirazione e creatio ex nihilo), la pittura come artigianato, la priorità dell’opera sull’anagrafe, l’universalità dell’arte sul proprio ombelico. Giannone prescrive ciò che Gide ordinava per il romanzo (purgare la pittura da tutti gli elementi che non le appartengono) e prova l’arte balthusiana come smentita della comunicazione nell’atto di organizzarsi linguisticamente in uno spazio che è il silenzio. Siamo al clou della missione flaubertiana: artista invisibile e impersonalità dell’opera, l’homme n’est rien, l’oeuvre est tout!

 

In un mondo, quello di Balthus, in cui l’emotività è spia della slealtà nei confronti della vocazione pittorica e la pittura è luogo di tenebra e silenzio, perdita di semanticità della figurazione, i feticisti dell’arte non sono benvenuti. L’arte restituita alla sua dignità di operazione formale assoluta, in relazione soltanto con i propri fini e il proprio senso, è l’omaggio che l’autore fa al suo stimato Balthus. Circondati dalla pratica full time di un’estetica a base di ciaffi e frappe, questo saggio sembra un extraterrestre per l’ardimento di concezioni non contemporanee molti passi oltre i due corni del presente, quello dell’umanesimo prêt-à-porter da terrazza e l’altro, degli antisistema da schiaffo e pugno.

 

BALTHUS, MONTECALVELLO E ALTRI SILENZI
Giovanni Giannone
Caracol, 96 pp., 10 euro

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