Lettere

Gridare "dal Giordano al Mediterraneo" e non sapere chi era Arafat

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Ho letto con piacere che un donatore dell’Università della Pennsylvania – Ross Stevens, fondatore e amministratore delegato di Stone Ridge Asset Management – ha scelto di ritirare una donazione del valore di circa 100 milioni di dollari per protestare contro la risposta della Penn all’antisemitismo nel campus. Lo ha fatto dopo la testimonianza al Congresso della presidente della Penn Liz Magill, che aveva detto che “invocare il genocidio degli ebrei” non è di per sé “una violenza”. La libertà di espressione va tutelata e anche le stupidaggini devono essere tollerate e non censurate. Ma un modo per sanzionare le scemenze c’è. Non limitando la libertà di espressione ma applaudendo le reazioni a chi sceglie di ribellarsi di fronte alle stupidaggini dette in libertà. Viva Stevens.
Lucia Marini

A proposito di stupidaggini. Il Wall Street Journal ha avuto un’idea geniale. Ha incaricato una società di sondaggi di intervistare 250 studenti provenienti da ambienti diversi dnegli Stati Uniti per chiedere loro qualche informazione in più sulla nota canzoncina: dal fiume al mare. Ovvero: “From the river to the sea”. La storia forse la conoscete. L’area che va dal fiume al mare si riferisce all’intera area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. In quell’area vi sono i territori conquistati da Israele nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni ma anche l’intero Israele. E chiamare tutta quell’area “Palestina” è un appello per l’eliminazione di Israele nella sua totalità. Il Wsj ha chiesto agli studenti di più, sul senso della canzoncina. Risultati. Solo il 47 per cento degli studenti ascoltati ha mostrato una seria comprensione del testo. Il resto no. Alcune delle risposte alternative erano il Nilo e l’Eufrate, i Caraibi, il Mar Morto (che è un lago) e l’Atlantico. Meno di un quarto di questi studenti sapeva chi fosse Yasser Arafat (12 di loro, ovvero più del 10 per cento, pensavano che fosse il primo primo ministro di Israele). Alla domanda in quale decennio israeliani e palestinesi avevano firmato gli accordi di Oslo, più di un quarto dei sostenitori del canto ha affermato che tali accordi di pace non erano mai stati firmati. Non c’è vergogna nell’essere ignoranti, dice il Wsj, a meno che non si gridi allo sterminio di milioni di persone.

 


 

Al direttore - Nel 1816 Giulio Beccaria, il figlio di Cesare, allestì un’intera sala del palazzo milanese di via Brera per custodire i manoscritti del padre. Quali sovrapporte agli ingressi della sala, commissionò a un ignoto pittore quattro tele a tempera. Mentre le ultime due sono dedicate alle lezioni universitarie di Economia tenute da Beccaria dal 1769 al 1772, le altre due illustrano l’evento più memorabile della sua vita: la stesura delle diverse bozze “Dei delitti e delle pene” (1765), l’opera che gli aveva dato una fama internazionale. La prima tela raffigura il momento che precede la scrittura: quello dell’ispirazione civile. La Giustizia, velata e in ceppi, con aria affranta, è presentata da un Genio alato a Cesare. Questi, seduto allo scrittoio, ruota le spalle per volgere lo sguardo verso di loro. Lo spettatore intuisce che sta alzando la voce per restituire dignità alla Giustizia. Nell’immagine della seconda tela lo si vede invece intento a scrivere il suo capolavoro. A dettarglielo è Minerva, cioè il lume della ragione. Nella grazia neoclassica della prima tela colpisce il volto mesto e chino della Giustizia. Ha le mani legate: è impotente, asservita. La sua condizione sembra quasi alludere al trionfo dell’ingiustizia. Colpiscono anche gli oggetti che stanno ai piedi della sua figura dimessa: un ceppo, su cui il boia esegue la decapitazione; e una spada, iconico attributo della Giustizia insieme alla benda e alla bilancia. Quale significato ha la presenza di questi oggetti? L’idea del pittore o, più probabilmente del committente, è che la Giustizia è afflitta e impotente perché le viene affidato il cruento ufficio di tagliare la testa ai condannati. La spada non compare nella tela come un attributo della Giustizia, bensì come la sua negazione. La Giustizia – l’autentica giustizia – si affaccia con i tratti della mitezza: è una figura disarmata. Il che tuttavia non risolve il suo rapporto con la violenza. Contrapponendosi all’eulogia della “potestas gladii”, Beccaria avverte pienamente il carattere inesorabile e tragico di quel rapporto: interprete di una nuova sensibilità umanistica, approda a una sua sofferta consapevolezza. Nella rappresentazione tradizionale, la spada era il fulgido emblema della giustizia che punisce la malvagità. E’ contro questa ideologia mistificante che insorge Beccaria. Beninteso, la violenza penale serve a combattere quella di chi delinque: ma sempre violenza resta. Ecco perché la figura della Giustizia è drammatica: non potendo rinunciare alla violenza, deve costantemente sforzarsi di farne l’uso minimo necessario. In fondo, è proprio questo concetto di “minimo necessario”, insieme cifra stilistica e nucleo filosofico dei “Delitti”, uno dei lasciti più preziosi di Beccaria per affermare una cultura garantista del diritto penale. Purtroppo, non paiono ancora sussistere le condizioni politiche affinché il Parlamento italiano compia un risoluto passo in avanti su questa strada. Se il futuro è nel grembo di Giove, non resta che sperare in congiunzioni astrali più benigne.
Michele Magno

 


 

Al direttore - Il Foglio scrive a proposito del teatro Bagaglino –  Salone Margherita di Roma, allocato in un immobile della Banca d’Italia, ora chiuso per lavori di ristrutturazione – che la premier Giorgia Meloni ne vorrebbe, a conclusione dei lavori, la riapertura. Si tratta di una lunga storia. Subito dopo l’insediamento di Mario Draghi al vertice di Palazzo Koch, diversi quotidiani, plaudenti, scrissero che ci voleva l’allora governatore per risolvere definitivamente il problema della coesistenza di un teatro affittuario in uno stabile di proprietà della Banca intimandogli lo sfratto che poi si sarebbe realizzato. Sono passati 16 anni e se ne discute ancora, a testimonianza del mal riposto entusiasmo in quel lontanissimo tempo. Sembrò del tutto fuori luogo considerare la decisione come una sorta di liberazione. Non credo che in linea generale vi sia un contrasto tra immobili della Banca non a uso funzionale e l’utilizzo in locazione come teatro. Né penso, in linea generale, che la concessione in affitto debba essere preceduta da un esame della qualità del teatro, a meno che non ricorrano circostanze assolutamente eccezionali magari contigue con la commissione di possibili reati. Il teatro in questione, invece, ha una sua storia e una tradizione che possono piacere o no. La locazione, anche da parte della Banca d’Italia o della società che ha in gestione gli immobili, deve obbedire ai normali criteri fissati a tal fine. Ai miei tempi, si raccontava che quel grande governatore che era Donato Menichella mal sopportava che un prolungamento dell’edificio in questione in un’altra via non fosse molto distante da una “casa chiusa”. Avrebbe voluto venderlo. Poi desistette. Con i migliori saluti. 
Angelo De Mattia

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