(foto Ansa)

lettere

Forma e sostanza separate in casa. Che spasso il governo Meloni

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Le aziende del turismo delle città balneari della Romagna stanno organizzando la caccia al tesoro più grande della storia. Si tratta di trovare  dove sono nascosti i 4,5 miliardi  pro alluvionati che Meloni afferma di aver stanziato, ma che Bonaccini giura di non aver ricevuto e che il generale Figliuolo non ha visto passare.
Giuliano Cazzola



Al direttore - Il mio primo incontro con “Rigoletto” è avvenuto nel 1994: avevo a 14 anni, alla Scala, insieme a mia nonna (santa donna: all’epoca mi scarrozzava in giro per teatri d’opera). Muti portava in teatro l’edizione critica, quella senza acuti per intenderci, con un cast di giovanissimi (Alagna, Rost) e di solide certezze (Bruson). L’allestimento era quello, tradizionalissimo, di Gilbert Deflo: Mantova del XVI secolo, stucchi ori, camicioni e merletti. I miei ricordi vagano poi da un video quasi surreale con un Pavarotti scenicamente come dire, poco convincente (era la regia di Ponnelle, 1982) sino al tradizionalissimo film di Marco Bellocchio con Domingo nel ruolo del titolo (che Verdi lo perdoni). Senza tentare scalate a record inarrivabili (Alberto Mattioli può dormire sereno…) avrò ascoltato e visto almeno una decina di “Rigoletto” negli ultimi trent’anni. Quando nel 2020 vidi (vidi, perché l’ascolto fu dimenticabile) il “Rigoletto” di Damiano Michieletto al Circo Massimo rimasi perplesso: ci avevo capito poco e, probabilmente, la resa musicale aveva influenzato anche il giudizio scenico. Così, complice il fresco serale ritrovato, quando ho deciso di impegnare una serata di agosto per tornare a Caracalla ad ascoltare lo stesso “Rigoletto” di tre anni prima non pensavo sarei rimasto così colpito dal cambiamento di prospettiva. La musica, anzitutto: “Rigoletto” è quel che è, nel bene (molto) è nel male (poco). Non è “Lohengrin”, ma neppure “Don Carlos”. Eppure la concertazione di Riccardo Frizza, così lontana dalla cappa opprimente ascoltata tre anni addietro, ha contribuito in modo determinante alla godibilità dello spettacolo. Quando si dice che un direttore intelligente (e, aggiungo io, attento all’Autore) risolve da solo mezzo spettacolo. Roberto Frontali giganteggiava nel ruolo del titolo, in una produzione che sembra tagliata su di lui; il giovane Ioan Hotea sostituiva in corsa con onore e mestiere (operazione non facile, in uno spettacolo come questo), l’indisposto Pietro Pretti; Zuzana Marková era una Gilda giovane e insofferente, forse perfettibile ma decisamente sopra la media. 
E veniamo alla regia: quanti avevano pensato di stracciarsi le vesti per aver dovuto assistere (vilipendio, vilipendio !!) a una “Bohème” lontana dalla Parigi di Luigi Filippo e speravano di venire a Caracalla e di ritrovarsi alla corte dei Gonzaga, saranno certamente rimasti delusi. O tramortiti. O forse ambedue, chissà. Capisco bene possa essere rassicurante immaginare che certe cose accadano solo in epoche lontane da noi, e che oggi con un gin tonic e un clic si sistemi tutto. Rassicurante, forse. Falso, certamente. Così in una periferia romana degli anni 70 si consuma, sotto le luci al neon di una giostra lugubre, il dramma quotidiano dell’incomunicabilità umana. E’ il dramma quotidiano di tanti figli ribelli e insofferenti, di tanti padri ottusi e oppressivi: due linee che non si toccheranno mai. Chi sperasse di ritrovare nello splendido spettacolo di Michieletto la Gilda docile e affettuosa consegnataci dalla tradizione ha sbagliato indirizzo: qui i protagonisti non si abbracciano mai. Il messaggio di Verdi, in una linea che parte da “Stiffelio” e risale su verso la trilogia popolare, fino a “Don Carlo” e “Aida”, è compiuto: le generazioni si scontrano. L’amore filiale, quando esiste, è condizionato dalle resistenze sociali, piuttosto che dalle convenienze politiche o dalle spinte amorose. Un Verdi duro come poche altre volte è capitato vedere, un Verdi però finalmente vero e vivo, che ci aiuta a capire come l’opera, in fin dei conti, sia – oggi più che mai – la forma d’arte che meglio di tutte regge l’urto dei tempi, inverando, oggi come ieri, sogni, sentimenti, passioni che non hanno età, non hanno tempo e, soprattutto, non sono mai condizionati dalla scena su cui le si rappresenta. E’ la vita, in tutta la sua cruda bellezza.

Federico Freni



Al direttore - Mi rivolgo a lei per esprimere il mio profondo sgomento e disappunto riguardo alla decisione del governo Meloni sugli extraprofitti delle banche. Innanzitutto, vorrei sottolineare che ho votato per Giorgia Meloni e nutro grande stima nei suoi confronti. Detto ciò, trovo la decisione presa dal governo surreale e desidero spiegare le ragioni dietro questa mia opinione. Un’azienda per principio deve guadagnare e nel rispetto delle regole massimizzare il guadagno, in primis per essere solida per poter essere pronta nei momenti di crisi e per secondo ma non meno importante per soddisfare gli azionisti. Ora mi domando perché  le banche sì, e altre aziende che, gestite in modo accorto e magari in settori che lo permettono, hanno avuto utili importanti quanto quelli delle banche non sono assoggettate allo stesso ragionamento. Non mi fraintenda, lo dico per assurdo e non perché doveva  essere fatto. Se le banche non hanno violato le regole e hanno ottenuto questi profitti perché penalizzarle? Inoltre questa decisione a mio avviso  rafforza l’idea che in Italia guadagnare è poco lecito, quasi un crimine,  e non mi sorprenderei se a breve invece di abolire la tassa sulle macchine con più di 185 kw, altra tassa introdotta  sempre dal centrodestra, ahimè, verrà in mente a qualcuno di “noi” di reintrodurre l’Iva al 38 per cento sulle auto con più di 2000 cc come negli anni 80… Ringrazio per l’attenzione e rimango in fiduciosa attesa di una sua opinione.
Mauro Canclini


Al direttore - Caro Cerasa, non sfugge di certo al Foglio che c’è un periodo, nelle dichiarazioni di esponenti del governo e della maggioranza, che rimane appeso (come si dice agli scolari magari frettolosi) quando si afferma che il prezzo della benzina di tutti i tipi, in Italia, è inferiore a quello che si riscontra in molti altri paesi europei, ma il prezzo finale alla pompa diventa nettamente superiore per il carico – oltre il 50 per cento – di accise e Iva. A questo punto, ci si attenderebbe che fosse detto perché non si può intervenire sulle accise (a questo proposito “oportet mendacem esse memorem”) o, diversamente, che ci si prepara a intervenire, ovvero, ancora, che si ipotizza di intervenire (come, quando, con quali convergenze) a livello internazionale sul prezzo del petrolio, alla stregua di quanto fu fatto per il gas, o che si dicesse altro ancora. Ma ciò non accade. Tutto sarebbe, però, possibile, meno che lasciare il periodo appeso: una questione non certo di forma, ma di netta sostanza.
Angelo De Mattia 

 

A proposito di forma e di sostanza, due episodi spassosi di questo governo, in parte legati ai suoi ragionamenti. Forma: combattiamo l’immigrazione, osteggiamo le Ong, contrastiamo l’Europa. Sostanza: decreti flussi da record, collaborazione con le Ong, contrasto al modello Orbán. Forma: alleggeriamo il contrasto all’evasione, ridimensioniamo l’Agenzia delle entrate, rendiamo il Pos meno invasivo. Sostanza: confermato all’Agenzia delle entrate lo stesso direttore nominato dai governi precedenti, sottoscritta nuova convenzione tra il Mef e l’Agenzia delle entrate per ottenere dalla lotta all’evasione un gettito maggiore rispetto a quello previsto da Draghi, esteso l’obbligo dell’utilizzo del Pos anche alle tabaccherie. Forma: spariamo scemenze. Sostanza: non possiamo non fare l’opposto di quello che diciamo.

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