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lettere al direttore

D'Alema e gli altri che oggi riconoscono l'assedio giudiziario al Cav.

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - “Neanche per Falcone e Borsellino lo stato ha sentito il dovere di proclamare il lutto nazionale, per Berlusconi sì: è un grave errore perché, al di là della pietas, era un pregiudicato”, ha scritto ieri in una cartolina il direttore della Stampa Massimo Giannini, che pure il giorno prima, sorprendentemente, aveva firmato un editoriale più garbato di molti altri e con una bella prima pagina “Ciao Cavaliere”.  Rispetto al leader indiscusso degli ultimi 30 anni, per quattro volte presidente del Consiglio (con il nome scritto sulla scheda), i funerali di stato erano dovuti, come degnamente mostrato dalla presenza del capo dello stato Sergio Mattarella. Resta incredibile però che persino il direttore di un giornale che negli ultimi anni si è distinto per le battaglie garantiste, tanto da avere in prima pagina, quasi ogni giorno, oltre che la rubrica di un modello scevro da corrente alternata come Mattia Feltri, grande attenzione e sensibilità su questo tema, oggi utilizzi la parola “pregiudicato”. Sulla Stampa abbiamo letto di innocenti in carcere, bambini dietro le sbarre, 41-bis, pestaggi ai detenuti, appelli per Cospito, riabilitazione, reinserimento in società, umanizzazione della pena. Ma a cosa serve tutto ciò se poi, di fronte a un uomo di 86 anni, che la sua pena l’ha scontata, giuridicamente, socialmente, politicamente e umanamente, ancora viene chiamato “pregiudicato”? A che serve scontarla quella pena, se persino dopo la cacciata dal Senato, e la pausa dalle istituzioni, una volta che la legge, oltre che la sovranità popolare, ti consente di rientrare in società, c’è chi ancora continua a chiamarti pregiudicato? A che serve fare quelle battaglie per le belle anime, se non difendi quei diritti anche per i tuoi nemici? E questo al netto della persecuzione giudiziaria che la magistratura militante ha compiuto ai danni di chi considerava un avversario politico e che persino D’Alema oggi è costretto, suo malgrado, a riconoscere. Se un uomo non è il suo reato, chi ha espiato non è un pregiudicato.
Annarita Digiorgio

A proposito di Massimo D’Alema. Ieri l’ex premier, con appena trent’anni di ritardo, ha detto che sì “Berlusconi ha avuto qualche ragione nel ritenersi perseguitato da alcuni giudici”. E’ una buona notizia sapere che anche i suoi avversari, a poco a poco, stiano capendo che il pregiudicato Berlusconi è stato vittima non delle sue malefatte ma prima di tutto di un lungo assedio giudiziario che, come ha scritto Giuseppe Sottile su queste pagine nello speciale dedicato due giorni fa al Cav., non ha mai avuto l’obiettivo di arrivare a condanne definitive. Ai magistrati che lo hanno perseguito per trent’anni, scrive Sottile, “interessava di più appendere il Caimano all’albero della gogna; interessava di più sollevare, contro il Cavaliere Nero, il popolo giustizialista: quello che applaudiva i giudici di Tangentopoli e sventolava il cappio della forca; quello che lanciava le monetine all’hotel Raphaël contro Bettino Craxi; quello che aveva sete di sangue e di galera; quello dei moralisti e dei perbenisti”. Berlusconi, lo sappiamo, ha subìto 36 procedimenti. Si sono occupati di lui almeno mille magistrati, disseminati un po’ in tutti i distretti giudiziari: da Milano a Palermo, da Caltanissetta a Firenze, da Siena a Bari. Dentro le aule dei tribunali, delle corti di appello e della Cassazione si sono tenute oltre 2.700 udienze. Suggerisco ai giornalisti che in questi anni hanno dato il proprio contributo nel trasformare il mestiere del cronista in una grande buca delle lettere delle veline delle procure di leggersi con attenzione l’intervista fatta oggi sul Foglio a Goffredo Buccini. Leggerla e poi chiedersi: noi che abbiamo sempre dato la caccia al Cav. abbiamo sbagliato qualcosa oppure no?

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