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La virtù degli imbecilli che condannano l'incoerenza di Di Maio

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Condivido spesso i suoi interventi ai talk-show in tv, ma è mai possibile che, in merito alla ridicola questione “armi non armi”, nessuno informa che l’Italia è il fanalino di coda per l’invio delle armi (0,18 per cento di tutte quelle inviate), dando quindi un contributo insignificante. Gli italiani credono a tutte le fandonie?
Federico Russo  

La classifica a cui lei fa riferimento, come raccontato già qualche giorno fa dal nostro Valerio Valentini, è quella prodotta dal Kiel Institute for the World Economy, un centro studi tedesco. Da quella graduatoria, in effetti, l’Italia risulta avere contribuito per soli 150 milioni in armamenti e munizioni e risulta essere undicesima dietro non solo ad America e Gran Bretagna ma anche a Estonia, Norvegia e Lettonia. In verità, quella graduatoria tiene conto solo del materiale non coperto da segreto. Se invece si considerasse il totale, il contributo effettivo dell’Italia salirebbe a più di mezzo miliardo di euro. Al vertice della Nato di Madrid si capirà se gli aiuti aumenteranno ancora oppure no (spoiler: la risposta è sì, aumenteranno ancora). Grazie.


Al direttore - La storia è piena di traditori, per avidità o per amor di patria, per ambizione o per vendetta, per fanatismo o per viltà, per mille ragioni e per mille passioni. Ma chi è il traditore? Che sia chi infrange un giuramento, o incrina il patto che unisce una comunità, pare abbastanza ovvio. Per non parlare degli adulteri nella sfera privata, l’attributo di traditore è stato dato a rivoluzionari e voltagabbana, apostati ed eretici, convertiti e rinnegati, ammutinati e disertori, spie e collaborazionisti, ribelli e terroristi, pentiti e crumiri. Eppure, se osserviamo la percezione del tradimento che nelle diverse epoche ne hanno avuto contemporanei e posteri, essa si basa su due postulati. Il primo: chi vince non è mai un traditore. Il secondo: ciò che oggi viene considerato un tradimento, come ben sapeva Talleyrand, domani potrebbe essere considerato un atto coraggioso (“La trahison est une question de date”). Ho pensato allora al “caso Di Maio”. Fedifrago per i grillini duri e puri, esemplare di razza del nostro blasonato trasformismo italico, come lo ha definito Giuliano Ferrara sul Foglio in un arguto e spassoso ritratto. Del resto, siamo il paese che ha dato i natali a Leopoldo Fregoli, un impareggiabile artista capace di cambiare casacca e personalità con fulminea destrezza. Ora, chi scrive non sa dire (in verità ne dubita) se il ministro degli Esteri vincerà la sua scommessa politica, né se la sua separazione dall’avvocato del popolo (e di clienti abbienti) in futuro sarà giudicata come una scelta intrepida. Chi scrive, tuttavia, gli riconosce il merito di aver prosciugato definitivamente il “campo largo” del centrosinistra, un’idea che faceva acqua da tutte le parti fin dal suo concepimento. La fondazione di Roma narrata da Tito Livio è strettamente legata al tradimento di Tarpea, la figlia del guardiano del Campidoglio. Chissà, non è poi da escludere che il “tradimento” di Di Maio contribuisca a ricostruire un sistema di regole in cui ciascun partito si presenta con il suo simbolo e il suo programma, prende i voti su quelli e prende seggi in proporzione ai voti, magari con un’opportuna soglia di sbarramento.
Michele Magno

A chi sostiene che essere incoerenti significa essere traditori bisognerebbe ricordare cosa sosteneva saggiamente Giuseppe Prezzolini sulla coerenza dogmatica: la virtù degli imbecilli.

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