Retroscena su Travaglio che consiglia il rosario. E occhio a Greta

Le lettere al direttore dell'11 agosto 2021

Al direttore - Perverted or just italian, controllerà il gestore del ristorante.
Giuseppe De Filippi


   
Al direttore - Non ai lavoratori, non a scuola, impossibile per i gestori di locali: si va verso l’obbligo del green pass a casa.

Andrea Minuz


  
Al direttore - Si dice che il Vernacoliere si appresti a citare in giudizio il Fatto quotidiano per concorrenza sleale.
Michele Magno

  
A proposito di Fatto quotidiano, una piccola storia divertente. Da lunedì 9 agosto, come sapete, abbiamo deciso di regalare ogni giorno con il nostro giornale, fino a sabato prossimo, degli estratti del libro sulla vita di Mario Draghi. Un libro scritto a metà 2020 dal nostro collaboratore Marco Cecchini (si chiama “L’enigma Draghi”, è edito da Fazi). Ieri il Fatto Quotidiano ha dedicato la sua splendida rubrica “Slurp” alla nostra piccola iniziativa descrivendola con le stesse parole che Marco Travaglio potrebbe utilizzare per commentare i pregevolissimi articoli scritti da Marco Travaglio su Giuseppe Conte (Slurp!). “Già assurto allo status di venerabile – scrive il Fatto – gli si dedicano biografie mentre è ancora tra di noi… Ai suoi lettori, insieme alla Dragheide, regalerà un rosario”. L’idea del rosario effettivamente non è male, grazie del consiglio, ma c’è un piccolo problema per il caro Travaglio, anzi un doppio problema: il problema numero uno è che il libro del nostro Cecchini è stato ben recensito nel giugno del 2020 (il 15 giugno) proprio dal Fatto, con Giorgio Meletti (un anno dopo, il 20 giugno del 2021, il grande Giorgio Dell’Arti utilizzerà il libro di Cecchini per fare un pezzo sulla vita di Draghi). Il secondo piccolo e spassoso problema è che pochi mesi dopo quella recensione il responsabile libri della casa editrice del Fatto ha chiesto all’editore Fazi i diritti per poterlo allegare al giornale in edicola, all’interno della PaperFIRST diretta da Marco Lillo. In quei giorni li ha chiesti anche il Foglio, per poter pubblicare il libro a puntate. Il Vernacoliere, che sballo. 


  
Al direttore - Il sesto Rapporto Ipcc ripete i precedenti: l’allarme, con l’enfasi catastrofica, aumenta, ma la soluzione latita. Cresce l’ansia, ma anche l’impotenza. Se ne è accorta perfino Greta. Che, per la prima volta, cerca di apparire costruttiva: “Qualcosa si può fare”, è il suo appello, stavolta. Bene. Purché ci intendiamo sul “qualcosa”. Non può essere, esclusivamente, il rituale e scontato appello al taglio delle emissioni di CO2. Che si rivela, purtroppo, una non soluzione: insufficiente e irrealistica. In qualche modo, lo conferma la stessa Ipcc. Che considera “irreversibili” alcuni fenomeni (il livello dei mari) e fa riferimenti, scontati e stanchi, alle emissioni. Quella della CO2, purtroppo, si va rivelando un’autentica trappola. Che rischia, paradossalmente, di produrre impotenza e assuefazione più che consapevolezza. Finalmente l’Ipcc dice una cosa che sfugge ai più: “Se smettessimo, oggi e subito, di emettere CO2 non toglieremmo un solo grammo del gas serra già presente in atmosfera”. La CO2 già in aria ci resterà per decenni. Se è essa a procurare disastri, nessuna riduzione futura ne bloccherà, intanto, gli effetti: quelli in atto, se essa è la causa, sono irreversibili. Più che non immettere CO2, servirebbe toglierla dall’aria. Con la eco-ingegneria. Ma, chissà perché, la cattura della CO2 non piace agli allarmisti.  

Verso la CO2 futura ci sono tre approcci: quello europeo, il più radicale, vuole portare le sue emissioni (al 2030) al 55 per cento di quelle che erano al 1990, per poi azzerarle al 2050; quello Usa sposta l’azzeramento al 2070; Cina e India, i grandi emettitori, non attuano politiche antiemissive e lasciano la data della decarbonizzazione del tutto impregiudicata. Insomma: taglio a termine in 20 anni (Europa), taglio più moderato (Usa), nessun taglio (chi emette di più). La verità è che il taglio delle emissioni non è una scelta priva di costi pesantissimi e di conseguenze, altrettanto, catastrofiche. Il taglio alle emissioni è in conflitto, diretto e palese, con altri due parametri: la crescita della popolazione mondiale, il numero di persone che deve mangiare e respirare (si produce CO2 anche così); la crescita economica (volgarmente il pil). Demografia e sviluppo, purtroppo, sono da secoli, correlati strettamente alle emissioni di carbonio. E’ un fatto.

Ecco la trappola: se la soluzione alla catastrofe climatica si riduce solo alla CO2, il rischio è che ci sia poco da fare. Nessuno rinuncerà alla crescita. Ma ipotizziamo lo si faccia e tutti seguano l’Europa (la più radicale), che succederebbe? Secondo le politiche europee, dovremmo continuare a emettere scendendo, gradualmente, fino al 2050. Per poi smettere. Ecco il deal. Fino alla metà del secolo, dovremmo immettere in atmosfera il 50 per cento di quello che il mondo ha emesso dal 1990 a oggi. Che si aggiungerebbe alla CO2 intera che oggi è già in atmosfera. Basterà a fare il miracolo di fermare le temperature? L’Ipcc, prudentemente, non lo dice. Anzi, indipendentemente dai tagli, ipotizza cinque scenari di temperatura futura. Più o meno catastrofici. A fronte di questi tagli incerti, si dovrebbero mettere in conto prospettive malthusiane e di decrescita, che i popoli della Terra (alla fine anche gli europei) non sono disposti a sopportare. L’Ipcc non aiuta a uscire dalla trappola tra emissioni e decrescita. Anche perché non è il suo compito. Sono i governi che dovrebbero usare i rapporti Ipcc (che, in ogni caso, non descrivono un’ora X dell’apocalisse) come moniti, semmai, e non come prescrizioni. E capire che non ci si può impiccare alla sola scelta di non emettere. E che occorrerebbe una alternativa, un piano B. Che concili decarbonizzazione e crescita economica e demografica. L’alternativa si chiama adattamento: attrezzarsi, con le opere, a prevenire il clima estremo, descritto dall’Ipcc; investire, semmai, sulla eco-ingegneria; uscire dall’incubo delle date capestro (2030, 2050, 2070) e perseguire una decarbonizzazione soft, realistica, basata sulla tecnologia e non sulla decrescita.
Umberto Minopoli

    
Il punto è proprio questo. Non si tratta di smontare la scienza. Non si tratta di negare che il clima si stia riscaldando. Non si tratta di negare che gli esseri umani abbiano avuto un qualche ruolo in tutto questo. Si tratta di fare un ragionamento simile a quello fatto ieri dal Wall Street Journal in un buon editoriale. E il punto è qui: l’approccio politico al tema della lotta contro il global warming è viziato da alcune previsioni apocalittiche che si basano su scenari non inequivocabili. Nessuno nega che la politica debba fare i conti con il riscaldamento globale, ciò che si può e si deve discutere è come far sì che vi sia, come scritto dal Wsj, una politica climatica ragionevole in grado di monitorare le tendenze di medio periodo e capace di non trasformare la lotta contro il global warming in un nuovo derivato delle teorie della decrescita felice. Chissà che la nuova Greta non sia in qualche modo d’aiuto.

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