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La politica silente sul caso Mannino ha un modo per riscattarsi

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Palermo confermando l’assoluzione di Lillo Mannino. E’ un altro tassello di un mosaico giudiziario che poco a poco, a prezzo di attese inenarrabili e di sofferenze affrontate con singolare discrezione, conferma l’innocenza di Mannino e lo restituisce alla storia del paese per come merita. Ora io mi chiedo però: è mai possibile che all’indomani di un vero e proprio calvario giudiziario non ci sia un ripensamento coscienzioso su questa vicenda da parte di chi – magari in buona fede – l’ha interpretata in chiave colpevolista? Non c’è un magistrato, tra quelli che hanno cavalcato l’onda giustizialista, che sa cogliere oggi l’occasione per un ripensamento sui torti e le ragioni di questa vicenda? Non c’è un avversario politico che riconosca di avere combattuto un limpido antagonista che a sua volta combatteva la mafia e non una figura opaca che prosperava nella zona grigia? Agli amici di Mannino oggi basta la gioia. Ai suoi nemici (e al paese) servirebbe un esame di coscienza più scomodo e più autentico.
Marco Follini



Al direttore - Giustizia non è fatta! La Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso della procura di Palermo contro la sentenza della Corte di appello di Palermo che confermava l’assoluzione con formula piena dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino accusato di aver partecipato alla trattativa stato-mafia (noi riteniamo che se trattativa ci fu i responsabili sono fuori dai processi intentati dalla procura di Palermo, ma di questo parleremo in un’altra occasione). Le persone perbene dinanzi a questa sentenza esultano ma, ripetiamo, giustizia non è ancora fatta. Mannino ha collezionato ben 14 assoluzioni e ciò che indigna di più è il fatto che il leader democristiano ha trascorso quasi due anni nelle patrie galere da innocente. Questo comportamento è appartenuto per venti anni al fascismo e noi conserviamo ancora la forza di indignarci dopo oltre settant’anni di vita repubblicana. Ma la cosa ancora più grave potrebbe essere che i magistrati della procura, con annessi i vari giudici per le indagini preliminari, sapessero della innocenza di Mannino. Questo legittimo sospetto nasce anche dalla lettura attenta della sentenza di primo grado dell’ultimo procedimento cui la suprema corte ha messo finalmente la parola fine, sentenza che ha fatto strame delle indagini a senso unico della procura di Palermo. Noi non dimentichiamo che la legge impone ai pubblici ministeri la ricerca anche delle prove dell’innocenza dell’indagato e non ci risulta che queste prove la procura di Palermo le abbia ricercate. Se ciò che diciamo fosse confermato noi avremmo avuto delitti contro la libertà personale passati per tanto tempo sotto silenzio. Forse questa coraggiosa e sprezzante sentenza della Cassazione mette finalmente all’attenzione della pubblica opinione e a quella del Parlamento la necessità di fare finalmente chiarezza sulle responsabilità che i pubblici ministeri devono avere nell’esercizio della propria funzione. E c’è un solo modo per fare chiarezza ed è quello che la procura di Caltanissetta apra una indagine su questa scandalosa vicenda che offende la patria del diritto e sui pubblici ministeri coinvolti. Lo chiediamo sine ira ac studio perché delle due l’una: o Caselli e i suoi sostituti sapevano della innocenza di Mannino e ciò nonostante lo hanno perseguito per quasi venti anni come noi abbiamo il dovere di sospettare o diversamente sono tutti incapaci di svolgere indagini delicate ed essenziali per la lotta contro la mafia. Si può sbagliare una volta o forse anche una seconda ma se si sbaglia per 19 volte o siamo dinanzi a colpa grave o a dolo e il dubbio non può non essere sciolto perché parliamo di giustizia, fondamento di qualunque democrazia. Ecco il motivo per cui mentre esultiamo anche perché da queste colonne qualche mese fa auspicavamo che la Suprema corte trovasse quel coraggio che ha avuto, diciamo che giustizia non è ancora fatta. Lo sarà quando sarà chiarito quel tragico dubbio sollevato e cioè se un gruppo di pm abbia violato la legge per colpa o per dolo o se, al contrario, ci troviamo dinanzi a un gruppo di professionisti pubblici non alla altezza di quel compito altissimo che la Costituzione e il nostro ordinamento mettono sulle spalle dei procuratori della Repubblica. Mai come questa volta “tertium non datur”.
Paolo Cirino Pomicino 

 

Lei solleva un punto cruciale che non riguarda il caso Mannino ma riguarda il caso della giustizia italiana. La legge, effettivamente, impone ai pubblici ministeri la ricerca anche delle prove dell’innocenza dell’indagato ma sfortunatamente l’articolo 358 del codice di procedura penale non prevede una sanzione processuale nel caso di mancato rispetto di questi accertamenti. Nel 1997, i giudici costituzionali si sono espressi su questo punto e hanno precisato che, il compimento di indagini anche a favore della persona indagata, servirebbe unicamente a “evitare l’instaurazione di un processo superfluo”, stante il fatto che “il principio di obbligatorietà dell’azione penale non comporta l’obbligo di esercitare l’azione ogni qualvolta il pubblico ministero sia stato raggiunto da una notizia di reato, ma va razionalmente contemperato con il fine di evitare l’instaurazione di un processo superfluo”. Se la politica volesse imparare la lezione del caso Mannino più che chiacchierare a vanvera dovrebbe partire da qui.

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