Matteo Renzi (foto LaPresse)

Le scissioni e il bluff dell'unità. Ci scrive il ministro Provenzano

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Italia viva, Conte vivacchia.

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Mi permetto di scriverle per smentire una fake news diffusa ieri sul mio conto dall’onorevole Marattin. Sul suo giornale, caro direttore, in questi mesi ho letto su di me numerose inesattezze. Lei mi ha definito corbynista, altri hanno detto che non sarei un riformista in quanto critico del Jobs Act, che non credevo fosse la legge fondamentale del riformismo realizzato (bisognerebbe avvisare di questo anche la Corte costituzionale che ne ha cassato parti decisive) e di cui ho proposto una “revisione” (bisognerebbe conoscere un minimo di storia della sinistra per sapere che sta proprio nel “revisionismo” una delle chiavi del riformismo). Luciano Capone ha invece chiarito, sia pure da un punto di vista critico, la mia impostazione di politica economica. Mi sono ripromesso di approfondire i diversi temi, per offrire ai suoi lettori (ci sono anch’io tra questi, da anni) una mia versione dei fatti e visione delle cose. Altre sono state le urgenze, spero di trovare l’occasione. Ieri però Luigi Marattin, enucleando le sue discutibili ragioni di scissione, ha scritto che guarderei con sospetto il mondo della produzione e dell’impresa, definendo gli imprenditori “padroni”. Sono figlio di un artigiano, ho diretto un’associazione “per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno”, collaborando con numerose organizzazioni imprenditoriali. Sono convinto, a differenza dei liberisti nostalgici e ideologici, che la leva pubblica, soprattutto attraverso una nuova politica industriale, debba sostenere l’impresa privata (e anche quella pubblica), non avendolo fin qui fatto abbastanza, rispetto ai nostri grandi competitori manifatturieri. In questi primi giorni di attività di governo ho incontrato diversi imprenditori, alcuni straordinari, con cui mi confronto da anni. Sono i primi a essere consapevoli di quanto sia necessario, per modernizzare il paese, investire sulla qualità e la dignità del lavoro, cancellando le sacche di illegalità e di sfruttamento che ancora albergano in alcuni segmenti del sistema produttivo, come nelle campagne dei caporali. Vi sono storie che ricordano gli anni 40, così come li ricordano le accuse classiste rivolte al ministro Bellanova, ora capo delegazione di Renzi al governo, nel giorno del giuramento. Nell’esprimerle solidarietà con un veloce tweet, le ho detto di non curarsi di chi offende per la provenienza sociale perché, come il sindacato insegnava ai braccianti in quegli anni drammatici (riferimento che Teresa conosce benissimo), è atteggiamento da “fascisti o padroni”. Nessun sospetto, nessun accostamento agli imprenditori, dunque, come logica elementare pretende, anche dall’onorevole Marattin. Insomma, la decisione di spaccare oggi il Partito democratico è una cosa seria, si provi ad argomentarla evitando le sciocchezze, con un minimo di serietà.

Giuseppe Provenzano

ministro per il Sud e la Coesione territoriale

 

Al direttore - Nel leggere il bell’articolo di Annalisa Chirico (“Prove di Lega in doppiopetto”) e le interviste che vi sono contenute, mi ha assalito un dubbio: i leghisti non si staranno tradendo da soli?

Giuliano Cazzola

Un’altra Lega è possibile. Ma l’unico che sembra non volerlo capire è il senatore ex truce che continua ad avere a fianco come responsabile economico un deputato convinto che uscire dall’euro sia la soluzione giusta per ridare ossigeno all’economia italiana.

 

Al direttore - Per chi non è mai stato comunista, post comunista, piddino e fellow traveller, la mossa di Renzi offre l’occasione per riflettere sulle ultime stagioni. Vorrei avvicinarmi alla realtà ribadendo senza ipocrisie che il Partito democratico non è mai stato quello che proclamava di volere essere nel manifesto originario e, dunque, che ha fatto fallimento come il suo peso elettorale certifica. Invece di riallinearsi alla socialdemocrazia europea e al liberalismo riformatore tra loro ibridati (come sembrava nelle intenzioni iniziali), i realisti post comunisti della ditta emiliana e i post democristiani di sinistra con venature dossettiane (quanto di più illiberale ci sia mai stato) stipularono uno pseudo compromesso storico con trent’anni di ritardo sul cattocomunismo di Berlinguer e sessanta sul realismo nazionalpopolare di Togliatti. Così, quando irruppe il coraggioso e presuntuoso figlio del toscanismo lapiriano con la volontà di scomporre i vecchi giochi, i cacicchi del partito se la legarono al dito non tollerando che un potere stratificato che veniva da Pci e Dc potesse essere liquidato con un colpo ben assestato dell’ultimo arrivato. Renzi non aveva la statura politica di Craxi e la genialità elettorale di Berlusconi, ma come loro doveva essere demonizzato perché non si era adeguato: in tutti e tre i casi il giustizialismo che scorreva nelle vene della sinistra comunista fece la parte principale. E’ arrivato, dunque, il momento di chiedersi, oggi, se il bullo toscano ha fatto bene a fare quel che ha fatto. Non spetta a me, estraneo alla vicenda se pure accorato dei destini della nazione, dare una risposta, alzando il ditino per fare la lezione. Non posso tuttavia digerire la solita solfa dell’“unità” in nome della quale, a sinistra, si sono commessi i peggiori strumentalismi (vi ricordate che cominciò Berlinguer, all’indomani del referendum sul divorzio del 1974, a dire che bisognava ricomporre l’unità dei lavoratori comunisti e cattolici che era stata distrutta da quegli sciagurati di radicali e socialisti?), che hanno condizionato la politica d’ogni tipo allietata da scissioni gruppuscolari sempre denominate “unitarie”. La mia sensazione è che la possibilità di tornare a qualcosa di simile a quell’abbozzo di democrazia dell’alternanza in vigore nella cosiddetta Seconda Repubblica non riposa sul grembo dell’unione tra un Pd epurato dai rompiscatole e gli antiparlamentari senza bussola dei Cinque stelle, ma dalla convergenza nel legislativo e, se possibile, nell’esecutivo tra la forza della sinistra popolare con un pizzico di populismo e quei riformatori democratico-liberali e fors’anche della destra storica (nulla a che fare con il centrismo balbuziente e pasticcione) che hanno sempre goduto del consenso di una fetta non indifferente dell’elettorato più avvertito (vedi le tendenze in tutto l’occidente dei voti urbani) che non è poi da buttar via. Personalmente non so se ce la farà Renzi depurato dal bullismo, o Calenda capace di passare dal manifesto perfetto alla politica imperfetta, o qualche altro uomo o donna nuova che spunta dalle nebbie. Ma, per carità, ministro Franceschini, lasci stare “le divisioni che fecero trionfare il Duce”. Forse anche al ministero culturale occorrerebbe consultare qualche buon libro di storia patria del Novecento. Un saluto.

Massimo Teodori

Lo abbiamo scritto ieri: quando in un partito l’unità diventa non un mezzo per raggiungere un fine ma un mezzo che si trasforma automaticamente in un fine, significa che quel partito tende a considerare l’essere uniti come una condizione sufficiente per esprimere la propria identità. Essere uniti è importante. Ma in politica quando il medium diventa il massaggio, significa che il messaggio semplicemente non c’è.

 

Al direttore - Si profila il rischio “tela di Penelope” della maggioranza con la scissione operata da Renzi o si riuscirà a raggiungere una “discordia concors”? Alla luce dei precedenti – in particolare, dell’invalso concetto renziano di serenità – appare difficile conseguire quest’ultimo obiettivo, pur essendo esso fondamentale per mantenere in vita un governo appena nato. Intanto, la prova di fuoco del nuovo assetto parlamentare è data dalla prossima sessione di bilancio e dal modo in cui i gruppi parlamentari ora costituiti si comporteranno sotto l’alta direzione di Renzi. L’altro banco di prova è il rapporto con le istituzioni comunitarie; poi verrà quello che alcuni considerano il “primum movens” di questa non esaltante vicenda di separazione: il momento della spartizione partitica delle numerose e cruciali nomine pubbliche. Del resto, per un’operazione che non muove da un’analisi profonda della situazione e da una altrettanto profonda proposta di azione, bensì viene giustificata con la pesantezza dei rapporti all’interno del Pd – ma contraddittoriamente perché proprio da poco erano state accolte le importanti proposte renziane – vi sono tutte le condizioni perché si pensi ad altre cause agenti, anche se ciò, in ipotesi, non rispondesse al vero. Con i migliori saluti.

Angelo De Mattia

 

Al direttore - Nel primo governo Conte il ministro per i Rapporti con il Parlamento volle intestarsi anche lo sviluppo della “democrazia diretta”. Ora non è più così: il secondo governo Conte ha preferito tornare al lessico costituzionale della tradizione. Il che, come prevedibile, ha prodotto una irritata precisazione rousseauiana di Davide Casaleggio, sul Corriere della Sera di ieri. “Aggrapparsi – secondo lui – alle tradizioni ignorando le possibilità del presente” rischia di creare ben sette paradossi della democrazia. Tali paradossi venivano da lui puntualmente evocati in un paginone ad hoc. In termini, però, fin troppo generici e retorici. La sensazione accreditabile era probabilmente che il rousseauiano Casaleggio reagisse alla montesquieuiana pagina di domenica scorsa che il Corriere della Sera aveva dedicato a Giovanni Sartori e alla sua insofferenza alla democrazia totalitaria: quella che, “grazie alla fictio di una presunta adesione popolare”, è atta a sanzionare l’uso più illimitato e dispotico del potere. Le parole di Sartori risalgono al 1957, quando la piattaforma Rousseau era di là da venire e nessuno avrebbe mai pensato a un suo finanziamento pubblico. Oggi varrebbe la pena pensare alla nascita di una piattaforma Montesquieu contro ogni tentazione di democrazia totalitaria (cioè, di democrazia diretta illimitata).

Luigi Compagna

Dove ci si iscrive?

 

Al direttore - Trovo assai lucida l’analisi di Andrea Romano. Di certo i princìpi della sinistra liberale sono stati quasi sempre minoritari, mentre Matteo Renzi ne ha offerto una versione “pop”. Attenzione, però: nessuno ha l’esclusiva su di essi. Nel secolo scorso, anzi, l’innovazione è passata proprio attraverso l’incontro fra istanze sociali e liberali. Come scrive Romano, poi, inutile illudersi di poter riesumare i Ds e la Margherita. Senza tuttavia dimenticare che quei due soggetti erano già espressione di una crisi profonda del quadro politico e istituzionale italiano, crisi che si protrae ormai da decenni, caratterizzata dal sovrapporsi di questioni antiche e recenti.

Danilo Di Matteo

 

Al direttore - Mi ha stupito, perché ha iniziato il suo editoriale quotidiano scrivendo “La rottura con il Pd è sbagliata” e poi si è impegnato per tutto l’articolo a mostrare e dimostrare che (come ritengo anch’io) è cosa buona e giusta. Stupore doloroso in principio che si è trasformato in stupefatta gioia, grazie.Cordialmente.

Giovanni De Merulis

 

Al direttore - Caro Cerasa, non sono del Pd e non mi scandalizzo della decisione annunciata da Renzi. Tutto questo che il gruppo di Renzi continuerà ad appoggiare il governo Conte bis. La decisione di Renzi è destinata a modificare la geografia politica del moderatismo italico. Non so cosa avverrà in Forza Italia e zone limitrofe di centro ma, in prospettiva, potrà nascere quella forza di centro moderato per una stagione sicuramente migliore di adesso della politica italiana, con al centro i valori occidentali, e il rilancio dell’Europa come una realtà che possa portare lo sviluppo economico e il rilancio del ruolo europeo per contare sullo scacchiere mondiale.

Giovanni Attinà

 

Al direttore - Roberto Villetti ci ha lasciato. E’ stato un amico e un caro compagno. Da direttore dell’Avanti! seguiva con interesse e intelligenza le vicende e le discussioni interne al Pci, mi chiedeva di scrivere sui rapporti tra socialisti e comunisti e sulle prospettive politiche della sinistra italiana. L’unità della sinistra era la questione su cui ragionavamo, il nostro rovello. Ci incontravamo in redazione o a colazione in una vecchia trattoria romana. Roberto era un uomo colto, interessato a capire i mutamenti nella società italiana e nella politica. Difese la storia dei socialisti italiani in anni difficili e tentò di rilanciarne il ruolo nella vicenda politica del nostro paese. Fu un parlamentare preparato e puntuale. Roberto fu un uomo sobrio e riservato, di poche parole ma di grande umanità. Avrebbe meritato di più dalla vita e dalla politica. Lo ricordo con commozione e affetto.

Umberto Ranieri

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