Il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco al Meeting di CL Comunione e Liberazione (LaPresse)

Non solo Visco, ma pure Lutero. Bankitalia e ipocrisie varie sulla neutralità

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Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Caro Cerasa, selezionare un personale elettivo che curi esclusivamente l’interesse generale è in democrazia “mission impossible” (o quasi). Lo aveva capito Gaetano Mosca, un conservatore a tutto tondo. Per il padre della scienza politica moderna gli elettori non premiano i più dabbene e i più capaci, ma i più pronti ad assecondarli. In questo senso, lo scandalismo è stato sempre un buon combustibile per gli imprenditori politici, come quelli tesserati dalla ditta Grillo & Casaleggio jr, che vogliono aprire come una scatoletta di tonno il Parlamento. Beninteso, una politica rispettosa della legalità è cosa necessaria e buona. Ma le radici della cattiva politica non affondano soltanto nella politica medesima, come se la società italiana fosse un’oasi incontaminata di virtù civiche. Lo sappiamo da molto tempo: la violazione delle regole non solo vi è ammessa largamente, ma è un lubrificante del suo funzionamento. D’altronde, chi non ha mai parcheggiato in doppia fila o ha dimenticato di chiedere la fattura all’idraulico? Un pezzo di economia prospera solo così. Si può alzare “il costo morale dell’immoralità” (codici etici di partiti, imprese, pubbliche amministrazioni) quanto si vuole, ma niente potrà sostituire la forza cogente del diritto: leggi ben fatte, processi celeri, certezza della pena, magistratura inquirente efficiente, forze dell’ordine dotate di mezzi adeguati. Non servono insomma poteri straordinari contro la corruzione. Serve che i poteri ordinari vengano esercitati con straordinario rigore, come ha argomentato da par suo Sabino Cassese su queste colonne. Tutto il resto è noia, come recita la canzone.

Michele Magno

 


 

Al direttore - Non c’è solo il rinnovo dei vertici di Bankitalia. Il prossimo 31 ottobre cade anche un anniversario di cui, stranamente ma non troppo (e non a caso), se ne sta parlando meno ora rispetto a un anno fa. Parliamo ovviamente dei cinquecento anni della cosiddetta Riforma luterana, il cui inizio viene convenzionalmente fatto risalire all’affissione delle 95 tesi sulla facciata del duomo di Wittenberg (affissione che tra l’altro secondo alcuni storici non sarebbe neanche avvenuta). Ora a parte il fatto che non sembra che le celebrazioni dell’evento avviate in pompa magna, appunto, un anno fa abbiano avuto quella eco che forse in molti si aspettavano (anzi diciamola tutta, sono state un flop), e anche a voler trascurare il non banale dettaglio che il protestantesimo in quanto tale non sembra passarsela un granché bene (anzi diciamola tutta, sta malissimo), tra i tanti aspetti del verbo luterano (senza il quale, ad esempio, probabilmente ci saremmo risparmiati l’orrore del nazionalsocialismo hitleriano) ce ne sono due che forse vale la pena ricordare, con buona pace di certa narrativa e a beneficio dei tanti, in primis cattolici che ancora sembrano subire il fascino del monaco di Erfurt. Il primo riguarda il fatto che la distruzione della famiglia, che negli ultimi decenni ha subìto un’accelerazione le cui conseguenze solo un cieco potrebbe non vedere, è iniziata proprio con Lutero nel momento in cui il monaco, nella sua personalissima e stravagante rivisitazione dei sacramenti, non riconobbe la sacramentalità del vincolo coniugale, riducendolo a puro atto civile. Con tutto ciò che ne è venuto. Il secondo riguarda una delle colonne portanti della modernità, cioè il tema della libertà di coscienza. Che oggi, anche in certi ambienti ecclesiali, e sulla scia dell’idea luterana di libertà ha assunto il significato che ognuno è libero di decidere da solo ciò che è bene e ciò che è male. Con ciò non soltanto contrapponendo la libertà di coscienza a ogni forma di autorità esteriore, con conseguenze devastanti in tutti i settori (basti pensare all’educazione), ma se possibile elevando a valore ciò che, al contrario, da sempre la tradizione cattolica ha indicato come il peccato per eccellenza, il peccato all’origine di ogni altro peccato: la superbia, o se si preferisce il farsi dio di se stessi. Col risultato di aver reso l’uomo che voleva liberare – il cristiano dal giogo opprimente del dogma e del magistero ma anche l’uomo comune nei confronti di ogni autorità – prigioniero di una schiavitù ben peggiore di quella (presunta) di prima, quella dell’Io e le sue voglie, per dirla con Benedetto XVI. Davvero, c’è ben poco da festeggiare e molto da riflettere se è questa la “modernità” che certa chiesa ambisce.

Luca Del Pozzo

 


 

Al direttore - All’importante, complessa analisi della Ciliegia sulla vicenda della Banca d’Italia, pubblicata sul Foglio del 20 ottobre, formulo i seguenti commenti. Il governo, in effetti, non avanza una “proposta” al capo dello stato sulla nomina del governatore, ma adotta una deliberazione in sede di Consiglio dei ministri. Ciò avviene, però, dopo avere acquisito il parere obbligatorio, ma non vincolante del Consiglio superiore della Banca. Questi sono i rapporti formali, ma essi, secondo la tradizione, sono preceduti da decisivi contatti informali per cui non è mai accaduto che il presidente del Consiglio portasse alla delibera di quest’ultimo organo un nome sul quale il capo dello stato fosse in disaccordo o soltanto nutrisse qualche perplessità, considerato che il potere della massima magistratura del Paese non è quello di una mera firma del Dpr di nomina, ma precede e si estende a una valutazione di merito. Quando è storicamente accaduto che un presidente del Consiglio indicasse al presidente della repubblica in via informale un nome da questi non giudicato idoneo, il primo ha fatto dietrofront e ha optato, poi, per un personaggio sul quale è stato possibile raggiungere l’intesa. Questa informalità preventiva vigeva di fatto pienamente anche quando, secondo l’ordinamento precedente il 2006, il Consiglio superiore non dava un semplice parere, ma deliberava la nomina, che poi era sottoposta all’approvazione del governo e, soprattutto, del capo dello stato. I contatti informali riguardano ora anche il parere del Consiglio superiore che, benché non vincolante come si è detto, tuttavia, se fosse negativo, creerebbe certamente un delicato caso istituzionale. Con ciò cosa si vuol dire? Che molto riposa sul ruolo di ultima istanza del presidente Mattarella – tanto super partes che non può essere limitato da scelte partitiche, nella migliore delle ipotesi irrituali – al quale si guarda per una scelta che ripari i gravi danni compiuti dalla mozione del Pd. In omaggio alla verità e per le deduzioni che ognuno potrà trarne, occorre poi ricordare – visto che sembra una norma diffusamente ignorata, quella della legge 262/2005 – che tutte le decisioni in materia di Vigilanza devono essere adottate collegialmente da tutti e cinque i membri del Direttorio con voto paritario, sicché la predetta mozione tocca l’intero vertice. Si rafforza così all’esigenza che si affermino la stabilità, la corretta applicazione delle norme, la configurazione della commissione di inchiesta come la effettiva sede per l’accertamento della verità e delle eventuali responsabilità si corrisponda confermando nell’incarico Ignazio Visco. Personalmente mi auguro, conoscendone la competenza, il rigore morale e lo spirito di servizio, che il governatore continui ad affrontare con la nota saldezza queste giornate, sapendo che è in ballo qualcosa di ancora più importante della già fondamentale questione della nomina-riconferma. Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

  

Tutto corretto. Ma, se mi consente, come lei sa meglio di me, che la politica debba stare fuori da Bankitalia è una cosa complicata da affermare. Il governatore di Bankitalia, per quanto indipendente, per quanto autonomo, per quanto super partes, come lo è in fondo il presidente della Repubblica, non è del tutto estraneo al contesto politico. E’, in una certa misura, proprio per il fatto che la sua nomina dipende da un presidente della repubblica eletto da un Parlamento e da un presidente del Consiglio la cui fiducia dipende dal Parlamento, espressione anche degli equilibri della politica. E se la politica, nella sua quasi totalità, mostra una non fiducia sarà difficile non tenerne conto.

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