La sinistra europea? Bonne chance, monsieur Dalemenchon

Al direttore - Avvisare Catania: ad Alitalia soldi pubblici per trasportare persone.

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Vabbè, Renzi ha (forse) meno del 70 per cento, ma D’Alema rosica uguale.

Michele Magno

  

A proposito di D’Alema, piccolo dato significativo. Il nostro ex presidente del Consiglio presiede dal 2010 la Feps (Foundation for European Progressive Studies) e in sette anni di presidenza della “più importante fondazione dei progressisti europei” la situazione dei progressisti europei è più o meno questa: le uniche forme di progressismo ancora in vita, in Europa, sono quelle che hanno fatto l’opposto di quanto suggerito da Massimo D’Alema, e prima o poi qualcuno dovrebbe riflettere sul fatto che il capo della “più importante fondazione dei progressisti europei” oggi se la intenda più con i Civati e i Corbyn che con i Renzi e con i Macron. Bonne chance, monsieur Dalemenchon.

 


 

Al direttore - A me sembra che la domanda di quanto il sindaco di Milano Giuseppe Sala sia distante da Matteo Renzi (e viceversa) sia mal posta e anche di scarso interesse politico. Ciò che dovrebbe infatti interessare, a parte l’ovvia (e benefica) differenza caratteriale tra i due, dovrebbe essere piuttosto la rispettiva distanza rispetto a quel “modello Milano” grazie al quale Sala, con il forte e aperto sostegno di Renzi, ha vinto a suo tempo le elezioni. Come scrive giustamente Salvatore Merlo, l’Italia che “cambia verso” di Renzi si era specchiata nell’intraprendenza milanese dell’Expo. E lo aveva fatto con maggiore convinzione della stessa classe dirigente milanese (sindaco di allora compreso) vedendo in Expo la dimostrazione della capacità di Milano di indicare una via di ripresa del paese. Di qui l’ovvia armonia tra i due nei loro rispettivi ruoli. Ora sembra che sia subentrato invece un certo raffreddamento e se ne scrutano i segni. Si cita il fatto che i consiglieri di Sala lo incitino a “interpretare Milano”, come se il sindaco di Milano potesse fare altrimenti. Si cita la sua lettera al Corriere della Sera contro l’ipotesi di elezioni anticipate, come se il sindaco di una grande città che aveva votato Sì al referendum non avesse tutte le carte in regola, ed anche il dovere, di suggerire a Renzi una prudente pausa di riflessione. Si citano infine i colloqui con l’ex direttore del Corriere della Sera, come se questa non fosse semplicemente una dimostrazione di intelligenza da parte di un sindaco di Milano, così come lo sono, quando accadono e secondo una buona tradizione milanese , i colloqui con chi lo ha preceduto. Insomma, il punto politico dovrebbe essere se Sala tiene duro sul “modello” Milano oppure no. Là dove per “modello” Milano dovrebbe intendersi non l’utopia della “città Stato” (anche perché in Italia ne salterebbero immediatamente fuori almeno una decina), ma piuttosto il problema politico di una città che è il cuore della più grande area metropolitana del paese e la terza in Europa. Un’area la cui domanda di infrastrutture e di servizi – finanziabili con operazioni mirate di federalismo fiscale sul modello inglese, per esempio – è fondamentale per trascinare l’intero paese fuori dalla crisi. Sala lo sta facendo alla grande, la questione riguarda piuttosto Renzi o, per meglio dire, il governo nazionale. Quando si parla del rapporto tra Milano e Roma, infatti, è di questo che si parla. Non di questioni personali, e nemmeno di schemini elettorali (come si tende a fare invece a Milano), ma della più importante questione di governo che l’Italia, specie quella che vuole “cambiare verso”, ha oggi di fronte a sé.

Piero Borghini

 


 

Al direttore - Anche di fronte al dibattito sulle ong nel Mediterraneo – che in certe battute rasenta il surreale – vale quel che cantava De Andrè, “dal letame nascono i fior”: anche questa è una buona occasione per provare a rimettere un po’ di ordine sul tema, come ha iniziato a fare Ferrara ieri. Soprattutto quando invita a tornare alla realtà, che nonostante noi, è testarda. Le ong, che si portano dietro il peso di una definizione in negativo (organizzazioni “non” governative), hanno in sé un aspetto positivo: hanno a che fare tutti i giorni con gli aspetti più scabrosi della realtà, che in troppi vorrebbero rimuovere. Sono espressione della società civile, di persone normali, né santi, né diavoli, che provano a organizzarsi per rispondere a bisogni più che concreti: dare da mangiare a chi ha fame, educare, curare, salvare la vita a chi la rischia in cerca di un paradiso che non c’è, ma è comunque meglio dell’inferno che conoscono. In tutto questo proprio perché sono agenti “umanitari” le ong sono doppiamente costrette alla trasparenza: ogni euro che trattano, che arrivi dalla vecchietta o dal grande donatore privato o istituzione, deve essere tracciato perché gioca con la fiducia di chi dona. Per chi vuole restare nel settore questo è più di un dovere morale, è lavoro. Il punto è che a volte queste ong sono chiamate a supplire a certe assenze. La più grave quella di una politica che ha dimenticato come si pianifica con orizzonti spazio-temporali di un certo respiro e di stati distratti. Sulle migrazioni questo oggi è anche troppo evidente. Che ognuno tornasse al suo posto: questo sarebbe l’ideale. Se ciascuno facesse il suo mestiere, minimamente bene, saremmo già a un buon punto.

Giampaolo Silvestri, segretario generale AVSI

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