Un paese che non vota per Emiliano forse non è un paese senza speranza

Al direttore - Democrazia rappresentativa in crisi irreversibile, dice Grillo. Vabbè dai riammettete Emiliano in Lombardia.

Giuseppe De Filippi

Un paese in cui gli iscritti del maggior partito della sinistra dicono di no in massa a un magistrato che si candida in modo illegale alla guida di un partito politico (vedi l’intervista al capo dell’Anm di ieri) forse non è un paese senza speranza.

 


 

Al direttore - Ho letto con interesse l’articolo di Marco Bentivogli (il Foglio, 12 aprile). Considero il segretario dei metalmeccanici cislini come uno dei dirigenti più preparati e moderni del sindacalismo confederale italiano, e anche questa volta non mi ha deluso. Mi siano consentite, allora, solo poche osservazioni su un punto centrale del suo ragionamento. Bentivogli ribadisce una verità elementare, ma pervicacemente contestata dai neoluddisti del Terzo millennio: ogni rivoluzione tecnologica comporta la nascita di lavori nuovi e, parallelamente, la trasformazione di vecchi lavori, determinandone spesso la marginalità o la scomparsa. Ce ne offre un lucido ritratto (celebrato da Marx) il romanzo “I due poeti”, con cui Balzac apre il ciclo delle “Illusioni perdute” (1837-1843): “All’epoca in cui comincia questa storia – scrive – la macchina di Stanhope e i rulli inchiostratori non erano ancora entrati nelle piccole stamperie di provincia”. Nella tipografia descritta nelle prime pagine del romanzo sopravvivono perciò “Orsi” e “Scimmie”, cioè i torcolieri che si muovono tra le tavolette su cui è disteso l’inchiostro e il torchio, e i compositori, che fanno una “ininterrotta ginnastica [...] per prendere i caratteri nei centocinquantadue cassettini in cui sono contenuti”. Tutte figure professionali e mansioni destinate a scomparire, poiché le loro funzioni sarebbero state svolte da macchine: il torchio a vapore, il telegrafo, la rotativa e la linotype.

Ovviamente, non è qui possibile nemmeno tentare un elenco dei nuovi mestieri legati alla rivoluzione informatica in corso. Mi limito a citare un esempio emblematico: il “Mechanical Turk” di Amazon, che fa riferimento al celebre turco meccanico creato da Wolfgang von Kempelen per Maria Teresa d’Austria (1769), un finto automa in grado di giocare a scacchi all’interno del quale si celava un nano che ne manovrava le mosse. Si tratta di una piattaforma di “crowdworking” (da crowd, folla, e working, lavoro), che collega chi offre lavoro con un esercito di consulenti globale, disponibile online giorno e notte, sette giorni su sette. Non è difficile cogliere in questo portale la persistenza di un taylorismo sui generis: ogni ordine inviato online mobilita i dipendenti impiegati nei magazzini (per un salario medio di due dollari l’ora) in percorsi lunghi chilometri, con assegnazione di compiti parcellizzati, gestiti e monitorati grazie alla rete e a modelli di businnes che poggiano su una dura e gerarchica divisione del lavoro. C’è qualche sindacato che si sogna di affiliare questi lavoratori e immagina come proteggerli? Io non ne conosco.

Ecco perché il sindacato non può procrastinare la ricerca di una tutela e di una rappresentanza postnovecentesca (copyright Bentivogli). In questo senso, la regolazione dei lavori (il plurale è d’obbligo) deve cominciare dal mercato, ossia prima che il lavoratore trovi un impiego: infatti i sindacati sorsero per difendere gli iscritti che volevano trovarsi e mantenere un impiego. Adesso si attivano soltanto quando il lavoratore “si è già trovato il posto, o sta per perderlo, o lo ha perduto, cosicché in paesi come l’Italia sono più forti tra i pensionati che tra gli attivi” (Aris Accornero, “Era il secolo del Lavoro”).

Qualcuno obietterà (e continua a obiettare contro la filosofia del Jobs Act renziano): come, i sindacati devono tornare a tutelare i lavoratori sul mercato del lavoro prima che nel rapporto di lavoro? Come nell’Ottocento? Questo ritorno al passato può sembrare paradossale, ma è logico. Perché il secolo della diversificazione somiglia di più a quello dell’eterogeneità, quando il lavoratore veniva tutelato nel complicato passaggio sul mercato del lavoro, dove era più indifeso e insicuro. Gli scenari futuri della rivoluzione digitale in corso restano problematici, sia chiaro.

Il campo della cosiddetta economia della conoscenza può essere occupato sia da zone grigie tra lavoro autonomo e asservimento, sia da condizioni che valorizzano la responsabilità, l’intelligenza, la creatività, la partecipazione della persona che lavora. La seconda prospettiva richiede idee e lotte credibili, lontane dall’estetismo spontaneista della cultura del conflitto. Richiede, inoltre, che le organizzazioni dei lavoratori e le forze riformiste non restino frastornate, divise e incerte di fronte a novità che sembrano minacciarle, ma che non basta esorcizzare o maledire. Vedere la storia come un susseguirsi di fregature e di tradimenti, per cui il mondo migliore è sempre quello non c’è, significa consegnarsi all’irrilevanza politica nel mondo che c’è (copyright Bentivogli).

Michele Magno