Agenti e autoironia

Mariarosa Mancuso

Perché “Chiami il mio agente!” ha conquistato anche star che solitamente rifiutano la televisione

Immaginiamo che, dopo le riprese di “Il primo re”, Alessandro Borghi sia rimasto prigioniero del ruolo. Sporco di fango, con addosso le pellicce di scena, i capelli lunghi intrecciati con foglie e rametti. Nessuno desiderio di tornare alla civiltà, meglio la capannuccia e la caccia al cervo, fresco di frattaglie. Per liberarlo dall’incantesimo, interviene il regista Matteo Rovere: “No, non gireremo il seguito. Piantala con le smanie da Actor’s Studio: esci dal personaggio”.

    

Non è delirio. Con i nomi cambiati, è un episodio della serie francese “Chiami il mio agente!”. Per girarlo, hanno scritturato Jean Dujardin. Il vero Jean Dujardin, premio Oscar nel 2012 per “The Artist”, e gli hanno messo addosso un cappottone lercio in stile “Revenant” (il film di Alejandro González Iñárritu con Leonardo DiCaprio che per scaldarsi dormiva dentro un cavallo morto). L’attore Dujardin sta nella capanna di frasche, e caccia conigli da mangiare crudi. Costretto a tornare nella civiltà, addenta il cagnolino dell’antipatica produttrice.

      

Su Netflix ci sono le prime tre stagioni della serie, 18 episodi in tutto. La quarta – e probabilmente ultima, gli ideatori Dominique Besnehard e Fanny Herrero vogliono smettere prima del tedio – sarà girata a settembre (in streaming all’inizio del 2020). “Produzione originale” sta scritto nei titoli di testa. Non proprio: “Chiami il mio agente!” ha debuttato su France 2, nel 2015, e lì ancora la vedono i francesi. Racconta il lavoro (e le dinamiche interne, ad alta dispettosità) dentro un’agenzia che cura gli interessi degli attori – il titolo originale era “Dix pour cent”, appunto la percentuale di chi procura i contratti.

      

L’agenzia si chiama Ask, sta per Agence Samuel Kerr, il titolare che muore all’inizio del primo episodio. I soci sono quattro, con vite personali complicate che si mischiano con il lavoro. Scombina gli equilibri il nuovo azionista di maggioranza Hicham Janowski: non sa come funziona il cinema, ignora i nomi e soprattutto i trascorsi delle capricciose star.

     

All’inizio gli attori erano restii a farsi prendere in giro, indicati nel titolo dell’episodio con il solo nome proprio. Dopo la prima stagione, “Chiami il mio agente!” ha conquistato anche star che solitamente rifiutano la televisione, come Fabrice Luchini e Juliette Binoche, e Isabelle Huppert, musa dei registi d’arte e cultura. Ottimo bottino, conferma Besnehard, che prima faceva l’agente: “Gli attori francesi hanno lo snobismo della serietà, non sono abituati a giocare con la loro immagine come gli attori americani”. Per la prossima stagione, spera di convincere Marion Cotillard e Gérard Depardieu.

    

Uno degli episodi della terza stagione prende in giro Monica Bellucci. La vera Monica Bellucci, e siccome le trame sono perfidamente congegnate, ai discorsi sui contratti e la pubblicità fa seguito un’altra richiesta. Rivolta all’agente depresso, ma così tanto che nella pausa pranzo va a guardare gli oranghi al Jardin des Plantes: “Non avresti qualcuno da presentarmi?”. L’attrice ha appena girato un horror in Australia, e in vista dell’inverno si sente sola. Vuole un uomo normale, magari un falegname o un insegnante di matematica. Ci prova con un libraio (“vediamo se i film come ‘Notting Hill” dicono la verità”). Va a una festa con la parrucca bionda, chiacchiera con un giovanotto che non la riconosce – e subito si sente dire che “le donne belle son tutte sceme”. Ditelo per scherzo a un’attrice debuttante italiana, e vi prepareranno il rogo.

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