La Situa - dibattiti universitari
Cosa manca alle Università italiane?
Nella newsletter del direttore Claudio Cerasa, La Situa, c'è uno spazio di dialogo e confronto con i nostri lettori iscritti all'università. Qui si dibatte di università e di cosa gli universitari cercano e che non hanno ancora trovato
Ne La Situa, la newsletter del direttore Claudio Cerasa (vi potete iscrivere qui), c'è uno spazio dedicato agli studenti universitari. Uno spazio di dialogo, di confronto, di dibattito, di visioni sul futuro.
Abbiamo chiesto agli studenti cosa cercano nelle università che ancora non avete trovato.
Abbiamo scelto questa risposta. Se volete rispondere a questa domanda o avete altri spunti di riflessione scrivete a [email protected]., massimo 2.000 battute, i migliori testi verranno pubblicati.
Ho sempre pensato che qualora facessi l’insegnante una delle prime cose che stabilirei con i miei alunni (ma forse il discorso sarebbe da fare più ai genitori) sarebbe questa: io do valore alle valutazioni, quindi non mi interessa che raggiungiate il 10 nella mia materia; un 6 stabilisce che avete competenze e conoscenze sufficienti, questo mi basta. Non ci aggradano i voti perché li abbiamo feticizzati come il traguardo verso cui tendere a scuola, ma considerarli una valutazione dei progressi o dello stato delle conoscenze degli alunni non è una violenza psicologica verso di loro. Anche negli annunci di offerte di lavoro spesseggia la dicitura “possibilità di scatti di carriera”, pensare che questi non si basino su valutazioni, quali che siano, è sciocco. Il voto numerico è un sistema, mi sembra, abbastanza omogeneo che permette una valutazione dello stato dell’alunno: quale altro sistema per farlo, la valutazione del percorso? Non so quanto cambiare nome al sistema possa renderlo più gradevole. Dietro ai numeri, che siano 4 o 10, c’è un sistema di valutazione più esteso: sufficiente implica che lo studente domina la materia abbastanza per capirla, discreto e buono sono uno sforzo in più, e distinto e ottimo (giudizio quest’ultimo che dovrebbe essere usato con parsimonia) dimostrano un dominio quasi completo delle cose insegnate, una predisposizione all’approfondimento. Non credo il problema siano i voti numerici, credo lo sia il loro valore che si comprende assai bene guardando gli esiti dell’esame di stato, il quale è un colabrodo: un esame a cui è ammesso il 93,6% degli studenti e superato dal 99,8% non valuta e non è un esame, è un “liberi tutti”. Anche se riguarda gli esami di terza media, il fatto che Molise e Umbria registrino il 100% dei promossi è piuttosto grave (dati del MIUR 2022/2023). Un po’ di competizione aiuta i ragazzi a crescere, quando vogliamo che lo facciano? A vent’anni, quando ormai dovrebbero essere giovani studenti universitari, capaci di uno studio autonomo e non preoccupati a colmare lacune ereditate dalla scuola superiore perché i loro insegnanti erano troppo impegnati a salvaguardare la loro salute mentale? È infantile credere che la scuola senza voti punti allo sviluppo delle abilità del singolo proprio perché senza voti, persino la scuola di oggi, quella con i voti, ha quello scopo. Abbiamo smesso di credere che la cultura, che l’impegno, che lo studio abbiano una capacità formativa in sé, che possano essere veicolo di quei valori, inflazionati o meno, che le chiediamo oggi di inculcare; rispetto, civismo, legalità, pluralismo. Non credo che il problema principale della scuola superiore italiana sia il sistema di valutazione, credo invece, per come anche l’ho vissuta, che il grande non detto sia la qualità dell’istruzione, che riguarda insegnanti, libri e genitori: e non è una buona qualità.
Filippo Bertoldi
Università Ca’ Foscari di Venezia
220 punti e due lodi per due lauree umanistiche in uno dei migliori atenei italiani; e poi? Poi fai un visto per l’Inghilterra, paghi quasi £30.000 per un Master e per provare a rendere il tuo ingresso in carriera un po’ meno tardo e qualsiasi progetto di vita un po’ più fondato. In un articolo di giornale non c’è spazio per piagnistei e nostalgie di casa al profumo di basilico: per farla breve – e per darmi un tono – potrei ricorrere alla scorciatoia delle teorie macroeconomiche e mettere tutti i problemi dell’Università italiana sotto il cappello ‘neoliberista’. Non solo dimostrerei di poter passare al livello avanzato di Economics for dummies, ma sarei anche dalla parte giusta della storia: quella di chi si lagna di un ambiente che, dietro la retorica dell’eccellenza, ti dissangua per poi abbandonarti alla disoccupazione. Sarebbe più comodo, ma anche profondamente disonesto.
L’Università italiana è in difficoltà ma i problemi sono ben altri: c’è il ‘problema’ dei grandi numeri, dell’università sempre più di massa e sempre meno d’élite; c’è il problema di un’istruzione che deve essere funzionale rispetto a un mercato con esigenze diverse dalle passioni che gli studenti vorrebbero seguire. A questi cambiamenti epocali, l’Italia ha davvero risposto con la ricetta neo-lib venduta insieme al bignami di Milton Friedman? Probabilmente no.
Il motivo per cui io (come tanti altri), una volta appesa la corona d’alloro, sono dovuta partire ha più a che fare – per dirne una – con quel paradosso del valore legale del titolo di studio (paradosso che mi ha precluso, ad esempio, il concorso diplomatico). Un'altra ragione è l’insensata rigidità dell’articolazione dei corsi di laurea: se a 18 anni hai consegnato l’anima alla Filosofia, come ti viene in mente, a 21, di sostituire l’ennesimo esame sulla fenomenologia di Hegel con un corso di microeconomia?
Altro motivo è la totale assenza di un servizio placement che si curi anche solo di leggere il tuo CV. Chiedere che proponga tirocini vicini alle tue competenze al livello di ‘support & employability’? Ardito. Che sia la stessa Alma Mater a creare un network di allievi fruibile o a contattare aziende papabili, poi, un vero oltraggio: «si comincia così, poi si bandisce il greco dai licei e si profana la tomba di Croce. Attenzione!»
Magari serviva il cielo di Londra per aiutarmi a non scambiare lucciole per lanterne.
Danila Patti
Lse, Londra
Gentile Direttore, Mi chiamo Filippo e sono uno studente di violoncello iscritto al Conservatorio di Torino. Nella mia formazione, ho sempre avvertito una sfida nel definirmi uno studente “universitario”. Tra le lettere “U” e “R” di “Ministero dell’Università e della Ricerca” si cela una “A”, che sta per Arte. Appartengo a un mondo meno noto, quello dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica, una minoranza rispetto ai nostri “cugini” universitari, ma una parte integrante del sistema universitario italiano dal 1999. Nonostante sia passato quasi un quarto di secolo dalla riforma delle istituzioni dell’Alta Formazione, siamo ancora lontani dal sistema di istruzione superiore europeo prospettato dal processo di Bologna. I nostri titoli di studio, chiamati Diplomi Accademici, si collocano al di fuori della denominazione universitaria, creando confusione e ambiguità. Pur essendo equiparati alle Lauree, questa differenza di nomenclatura influisce negativamente a livello internazionale e nel mondo del lavoro. Oltre i confini nazionali, i miei colleghi artisti possono ambire a una vera e propria Laurea, mentre noi ci troviamo a navigare tra Diplomi e Lauree. Non è solo una questione di lessico, ma anche di sostanza. La legge 508 del 21 dicembre 1999 ci ha integrati perfettamente nel sistema italiano di istruzione superiore. Alta Formazione e Università condividono infatti l’articolazione degli studi in tre cicli, la struttura in crediti e la denominazione dei corsi di studio di terzo ciclo, ovvero “Dottorato di ricerca”. La parola “discriminazione” si fa sentire quando, armati del nostro titolo, ci confrontiamo con il mondo reale. Se è facile nominare un politico che elogi il nostro patrimonio artistico, è invece difficile trovare chi difenda la dignità di chi contribuisce a crearlo. Chiedo un’attenzione speciale a questa disparità, affinché la nostra Arte sia riconosciuta con la stessa dignità della formazione universitaria.
Filippo Longhi
Ricordo vividamente il mio ingresso in classe all’inizio dell’Year 12, poco dopo essermi trasferita in una boarding school inglese per frequentare il Baccalaureato Internazionale. Mi sedetti in cerchio con i miei compagni potendoli finalmente guardare negli occhi. Il mio professore di antropologia sociale esordì incoraggiandoci a partecipare attivamente durante la lezione con domande o riflessioni: “There are no stupid questions”, “Non esistono domande stupide”. Instaurando, così, un rapporto di collaborazione nella costruzione delle conoscenze. Il metodo pedagogico in questo ambiente scolastico era orientato allo sviluppo del pensiero critico. Un modo di fare scuola funzionale all’apprendimento. Un’educazione mirata, più che a trasferire informazioni, a promuovere la libertà come valore cardine. Oltre al contributo diretto durante le lezioni e allo svolgimento obbligatorio di attività extracurriculari, il principale mezzo di valutazione per le sei materie scelte da studiare era la redazione di brevi saggi accademici. Il primo che scrissi fu per storia e richiese che valutassi le politiche domestiche sociali di Mao Zedong, esaminandone i limiti e i benefici, entro le 1500 parole. Non mi era stato chiesto di ribadire le nozione apprese in maniera mnemonica, ma di fare una breve analisi autonoma dei fatti ottenuti attraverso un lavoro di ricerca, non disponendo di libri di testo.
Scrivere un saggio accademico convincente, analitico e al contempo personale esemplifica un dispositivo didattico che favorisce la riflessione critica. Un esercizio importante che ha diverse ramificazioni sulla formazione. Coltivare un pensiero critico fornisce, ad esempio, abilità trasversali, permettendo una prospettiva di studio ampia nel prosieguo di grado superiore. Nonché di perseguire le proprie passioni, come promosso nella fase d’ammissione universitaria anglosassone che invita a dimostrare un'autentica motivazione. Elaborare un’argomentazione indipendente significa, inoltre, riflettere davvero sull’oggetto di studio, il che scaturisce la curiosità di porsi domande e trovare delle risposte alle stesse. Un’abilità sempre più importante in uno scenario complesso, dove, se le informazioni sono sempre più facilmente reperibili, saperle navigare con sicurezza è la vera difficoltà.
Maria Alessandra Panzera
Lse, Londra
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