I programmi dei partiti e i miti da sfatare

Le trappole retoriche della campagna elettorale e il monito di Bobbio sulla democrazia. Il mito errato del “popolo che riprende in mano il proprio destino”. Contano di più la competenza e i saggi filtri della Costituzione. Parla Sabino Cassese

Professor Cassese, abbiamo discusso di quello che non c’è nei programmi dei partiti, in vista delle elezioni del 4 marzo prossimo. Vogliamo parlare di quello che c’è?

Non mi costringa a un’analisi dei libri dei sogni (altrui). Consideriamo piuttosto i miti correnti in questa fase preelettorale, secondo me tutti da sfatare.

    

A partire da quale?

Da quello dei burocrati di Bruxelles, che vengono dipinti come entità diabolica, onnipresente e opprimente, che appesantisce le ali dell’Europa. Sbagliato. Intanto, non sono l’esercito che viene dipinto: circa 43 mila, solo tre volte i dipendenti del Comune di Milano (ma i cittadini europei sono 500 milioni, i milanesi 1 milione e 300 mila circa). Poi, essi fanno valere nei confronti degli Stati obblighi e impegni che gli Stati stessi hanno liberamente sottoscritto. E’ legittimo, quindi, addossare a Bruxelles responsabilità che gli Stati si sono presi firmando accordi e sottoscrivendo trattati?  

   

Ma perché non ci lasciano margini di flessibilità, per la finanza?

Altro mito (o forse dovremmo dire errore?). Il margine di flessibilità sarebbe l’autorizzazione a mettere le dita nella marmellata più di quanto non si faccia già oggi. Questa espressione viene utilizzata come se essa comportasse finanziamenti più generosi dell’Unione, invece per quello che è, cioè maggiori debiti, e quindi maggiori costi, tutti sulle nostre spalle.

 

Non restiamo solo nell’ambito europeo, passiamo alle cose di casa nostra, dove rifiorisce la democrazia, la società civile non è mai stata tanto in auge come oggi, il popolo vuole riprendere nelle proprie mani il proprio destino.

Anche lei prigioniero della retorica. Vediamo uno per uno i falsi miti che si addensano intorno a questi temi. “Uno vale uno”. Espressione alla quale si danno molti significati, principale questo: non ha importanza chi viene candidato o eletto se quella persona fa parte di un movimento al quale deve rispondere, perché l’elezione è un mezzo. Insomma, l’uno vale l’altro. Le pare possibile? Perché chiamiamo l’idraulico se un rubinetto perde e il falegname se la gamba di un tavolo vacilla, e non il falegname se perde il rubinetto e l’idraulico se la gamba vacilla? Perché attribuiamo una competenza specifica all’uno e all’altro? Possiamo davvero dire che l’uno vale l’altro?

 

Ma se si deve scegliere un rappresentante gli si può chiedere di farsi portavoce del popolo: sarà quest’ultimo a dargli istruzioni.

Altro mito. Pensa che i 40 milioni di italiani che hanno capacità politica possano stare dietro tutti i giorni ai loro parlamentari dando loro istruzioni su come votare? E non ricorda quel che ha scritto sul finire del ’700 il grande Edmund Burke sulla deliberazione, che è fatta di valutazione, studio, discussione, di tentativo di convincere, di capacità di farsi convincere? Sarebbe mai possibile svolgere in una piazza di 40 milioni una attività così complessa?

 

Non sarà contrario anche all’idea di dare più voce alla società civile?

Altro mito. Intanto, quelli che si vorrebbe sloggiare dal Parlamento, i politici da sostituire con voci della società civile, sono in larga misura proprio rappresentanti della società civile scelti nella passata elezione (non dimentichi che vi è stato un cospicuo ricambio di eletti). Quale è la migliore società civile, quella che è già in Parlamento, o quella che andrebbe a sostituirla? Non si cadrebbe dalla padella alla brace? Poi, la mitologia della società civile si scontra con l’idea della politica come professione. Perché vogliamo che il nostro idraulico sia un bravo professionista, mentre ci accontentiamo di un “amateur” per fare un mestiere molto più complesso di quello dell’idraulico?

  

Ma più democrazia c’è, meglio è.

No, non è vero. Ricordi quello che ha scritto Bobbio, che nulla può nuocere più alla democrazia di troppa democrazia. Le rammento che la nostra Costituzione si apre disponendo che “L’Italia è una Repubblica democratica”, ma poi dispone che i magistrati e i funzionari siano scelti mediante concorso, sulla base del merito, non mediante elezione. E prevede un limite per quelli che sono eletti, perché sottopone la loro azione a un consesso di “saggi”, la Corte costituzionale, che può annullare le leggi. Ciò dimostra che i costituenti non condividevano un altro mito, quello che il popolo abbia sempre ragione. Se fosse vero che la ragione sta sempre dalla parte del popolo, perché consentire al presidente della Repubblica di rinviare le leggi al Parlamento, dandogli una occasione per ripensarci, e perché consentire alla Corte costituzionale di “bocciare” le leggi approvate dal Parlamento, che appunto, esprime la volontà popolare? Le debbo ricordare quel che il popolo britannico ha deciso con il referendum sulla Brexit o quello colombiano con la consultazione popolare sul processo di pacificazione?

  

Insomma, lei è contrario alla democrazia diretta.

Non è problema di esser contrario oppure no. La questione è un’altra: che è irrealizzabile. Luciano Canfora ha scritto che anche nell’agorà di Atene, nella Grecia di Pericle, ben poche volte vi erano decisioni direttamente prese dal popolo. Oggi l’evocazione di forme di democrazia diretta nasconde per lo più tentazioni bonapartiste.

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