Virginia Raggi (foto LaPresse)

I pm e la dura vita dei grillini duri e puri

Giuseppe Sottile
Teatrino della politica a chi? Perché i principali attori della commedia grillina vengono dalla magistratura.

Ammettiamolo. Di fronte allo spettacolo – a tratti comico, a tratti malinconico – messo in scena a Roma dalla compagnia di Beppe Grillo, la prima tentazione è quella di rispolverare una vecchia e collaudata definizione: siamo partiti dalla rivoluzione e ci ritroviamo, ancora una volta di fronte al “teatrino della politica”. Ma sarebbe un errore grave. Gravissimo. Perché nelle stanze del Campidoglio della politica non c’è nemmeno una labile traccia. E la prova sta nel fatto che i principali attori della commedia vengono quasi tutti da un altro mondo: dalla magistratura.

 

Certo, c’è il braccio di ferro tra la sindaca Virginia Raggi e il direttorio dei Cinque stelle. E c’è pure la lotta all’ultima nomina tra le seconde file del Movimento e Luigi Di Maio, il candidato premier incaramellato da oltre due anni nel suo abito blu. Ma il palcoscenico – quello vero, dove si gioca non solo il futuro della giunta, ma soprattutto l’avvenire di una città complessa e complicata come Roma – è dominato dai giudici.

 

Se provate a scorrere il film di questi ultimi due mesi, noterete facilmente che la catena dei guai dentro la quale si trova oggi impigliata Virginia Raggi nasce da un fascicolo – un fascicolo e nulla più – confezionato dalla procura di Roma e affidato con tutte le cautele del caso al sostituto Alberto Galanti. Lì, tra quelle carte, non vi si raffigura un reato. E neppure un’ipotesi di reato. C’è appena quella che un vecchio avvocato palermitano, Tonino Bonocore, geniale rappresentante degli azzeccagarbugli da pretura, amava chiamare “la peripotesi”, cioè una pura e semplice concatenazione di sospetti.

 

Se avete avuto la possibilità di leggere sul Corriere della Sera l’articolo con il quale Fiorenza Sarzanini cerca di spiegare il contenuto del fascicolo avrete l’idea precisa di ciò che intendeva Bonocore per “peripotesi”. Si parte da un convegno che Paola Muraro, nominata dalla Raggi assessore all’Ambiente, aveva organizzato quando era consulente dell’azienda municipalizzata della nettezza urbana; si esaminano i nomi degli invitati; si ipotizza che un invitato possa essere stato amico di Manlio Cerroni, incontrastato re delle discariche; e di ipotesi in peripotesi si arriva al sospetto che la Muraro, durante la sua permanenza all’Ama possa avere favorito il privato Cerroni a scapito della municipalizzata. Da qui la comunicazione data, in base all’articolo 335 del codice di procedura penale, alla stessa Muraro e la brutta, conseguente legittimazione della parola “indagata”.

 

Indagata sì indagata no, avviso di garanzia sì avviso di garanzia no, sta di fatto che la paura di una macchia getta nel panico gli immacolati del Movimento. E si deve probabilmente a questo timore l’entrata in scena di un secondo magistrato: di quella Carla Raineri che, proveniente, dalla Corte dei Conti, viene nominata dalla Raggi capo di gabinetto. Con il preciso compito, va da sé, di mettere la sindaca al riparo da ogni agguato, da ogni complotto, da ogni trappola burocratica. Non senza polemiche, tuttavia. Perché Carla Raineri, da togata, guadagna oltre 190 mila euro l’anno e, trasferendosi da Padova a Roma, non vuole certo rimetterci. Nemmeno un soldo. Per il partito di “onestà-onestà” è, ovviamente, un grave motivo di imbarazzo, appena lenito dalla considerazione che la trasparenza, altro mito del Movimento, dovrà pure avere un suo costo.

 

Quando il grumo di paure e sospetti sembra sciogliersi, sul palcoscenico del Campidoglio irrompe Raffaele Cantone, altro magistrato, capo dell’Anticorruzione. Che appellandosi autorevolmente a un cavilloso articolo di un Testo unico che non stiamo qui a ricordare, bolla la nomina della Raineri come “illegittima”.

 

La Raggi traballa, con tutta la giunta. Il direttorio si allarma, i puri si interrogano sul loro futuro. L’aria si fa pesante, pesantissima. La Raineri, stufa di tante polemiche, getta la spugna e si dimette. E con lei fugge anche l’assessore al Bilancio, Marcello Minenna, messo a quel posto dalla Raggi perché ritenuto il più puro tra i puri.

 

E’ il momento più drammatico: le accuse che Minenna andandosene rivolge al cerchio magico della sindaca rischiano di trascinare nel fango comici e comparse, pupi e pupari. Il teatrino scricchiola e Virginia, “la bambolina imbambolata” che fa? Per non essere travolta dalla tempesta, cerca riparo in un altro magistrato. E ancora una volta lo trova – dopo avere consultato gli amici più cari, a cominciare da quelli conosciuti nello studio dell’innominabile Cesare Previti – nell’accreditata casta della Corte dei Conti. E’ Raffaele De Dominicis, un ex procuratore generale da due anni in pensione, che tra le medagliette appuntate sul petto vanta pure quella di avere sparato ogni sospetto possibile sulle agenzie di rating e sulle caste degli altri.

 

La Raggi lo ha nominato al Bilancio, in sostituzione di Minenna, ma lui non ha ancora messo piede in Campidoglio: sta lì sulla soglia, annusa i venti di tempesta, ascolta i dispacci di quegli sputasentenze del direttorio e aspetta di vedere di che erba sarà fatta la scopa. “Con me la festa è finita”, ha dichiarato il giorno dell’investitura, altero e gaudente come un angelo vendicatore. Ma il giorno dopo, quando è venuta fuori l’indiscrezione che la sua nomina era passata dallo studio Previti, la baldanza si è di colpo rattrappita. E’ dura la vita per i puri e duri.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.