Il Palazzo di Giustizia, sede della Corte di Cassazione (© Marco Merlini/LaPresse)

Un libro a più voci contro il partito dei magistrati

Un ventennio della giustizia italiana, demolito da autorevoli giuristi

Guido Vitiello
Perfino in questi grigi tempi democratici capita, a noi megalomani, di sentirci per un giorno come all’epoca dei Medici o dei Gonzaga, quando il signore poteva radunare a corte i migliori musicisti d’Europa, commissionar loro mottetti e madrigali e farli eseguire per il proprio diletto.

Perfino in questi grigi tempi democratici capita, a noi megalomani, di sentirci per un giorno come all’epoca dei Medici o dei Gonzaga, quando il signore poteva radunare a corte i migliori musicisti d’Europa, commissionar loro mottetti e madrigali e farli eseguire per il proprio diletto. L’anno scorso, in un impeto di mecenatismo rinascimentale, ho detto al giovane giurista Andrea Apollonio: ci vorrebbe un bel libro a più voci sulla giustizia italiana nell’ultimo ventennio, che faccia capire cosa è accaduto al processo; ma io, che in materia sto a metà tra il loggionista e lo strimpellatore, non saprei neppure da dove cominciare, perché non lo fai tu? Lo sventurato mi ha preso in parola, e il madrigale polifonico è pronto: si chiama “Processo e legge penale nella Seconda repubblica”, e lo ha pubblicato Carocci il 30 aprile.

 


Sapeste che Camerata de’ Bardi mi ha portato a corte! Esordisce il maestro Giovanni Fiandaca, che gorgheggia sui populismi giudiziari di destra e di sinistra, sugli intellettuali ridotti a tifosi, sulla strana piega che sta prendendo l’ideologia professionale dei magistrati. E non è che l’introduzione. C’è Luigi Ferrajoli, che dissipa gli equivoci concettuali cresciuti come funghi tossici sul tronco sano del garantismo ed elenca le tre calamità che hanno rischiato di abbatterlo, ossia l’inflazione legislativa, il classismo della giustizia italiana e, di nuovo, l’uso populistico dei processi. C’è Mauro Mellini, che vede nell’ultimo ventennio la concitata fase terminale di una deriva istituzionale in atto fin dalla fondazione della Repubblica, che ha portato i magistrati, di forzatura in forzatura, a costituirsi in partito. C’è Massimo Donini, che descrive un diritto penale diventato un pericoloso surrogato dell’etica pubblica. C’è Alfredo Biondi, che rivendica le ragioni del suo famigerato decreto che i sanculotti e gli enragés dell’epoca battezzarono “salvaladri”. Altri capitoli riguardano i mutamenti nella prassi sull’arresto dei parlamentari, il rapporto degli ultimi presidenti della Repubblica con la giustizia penale, la custodia cautelare in carcere dopo Mani pulite, la legislazione antimafia (è il capitolo di Apollonio). I madrigalisti coprono tutto l’arco che va dalla destra berlusconiana alla sinistra vendoliana, e si esercitano sui registri più vari, dal saggio alla testimonianza all’invettiva.

 


[**Video_box_2**]Il mecenate rinascimentale che vive nei miei deliri di grandezza è specialmente incapricciato dal capitolo di Luigi Testa sugli “inquilini del Quirinale”, dove alcuni episodi emblematici – il “non ci sto” di Scalfaro, le tribolazioni di Ciampi alle prese con la grazia a Bompressi, le telefonate di Napolitano con Mancino – sono letti nella chiave del conflitto tra il privato cittadino e la dignitas istituzionale (gli ormai famosi due corpi del re). Mi pare che negli scontri con il supremo garante, specie nello showdown quasi insolente della Procura di Palermo, si lasci intravedere la grande tentazione che attraversa l’ideologia professionale dei magistrati. Ma già che sono un committente aristocratico, non un giurista, preferisco che a illustrarla sia Fiandaca: “A riprova di una simile ideologia di ruolo, un pubblico ministero in atto impegnato nel processo palermitano sulla c.d. ‘trattativa Stato-mafia’ ha dichiarato alla stampa: ‘Lo Stato non vuole il processo’. Ora, che la magistratura possa giungere ad autorappresentare se stessa come un’istituzione che fa il processo addirittura allo Stato, quasi che essa fosse un’istituzione esterna ed estranea all’organizzazione statale, non è soltanto una visione errata costituzionalmente. Piuttosto, questa autorappresentazione – al di là della sua insostenibilità politico-costituzionale – costituisce un’importante spia di quella che possiamo considerare l’ideologia reale di non pochi esponenti della magistratura penale di punta”.

 

E’ questa, forse, la novità più minacciosa del ventennio. Fortuna che appartengo a un altro secolo, e ora se non vi spiace torno a esercitarmi sul liuto.

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