Un Foglio internazionale

La politica estera virtuale dell'America in Afghanistan

I talebani hanno capito che non stavano combattendo un esercito reale ma una finzione proiettata da Washington sugli schermi di Kabul. L'articolo di Bruno Maçães su New Statesman

Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio Internazionale, l'inserto a cura di Giulio Meotti con segnalazioni dalla stampa estera 


 

Sono passate meno di due settimane da quando i talebani sono entrati nella capitale afgana, Kabul, e le truppe americane si sono ritirate per iniziare l’evacuazione dell’aeroporto. La città è diventata un incubo, e mi sono chiesto più volte: cosa succederà? (…) Ho lasciato Kabul prima della sua caduta e nessuno di quelli con cui ho parlato dubitava che i talebani avrebbero vinto”. Così inizia l’articolo dell’analista portoghese Bruno Maçães su New Statesman. “Tuttavia, c’era la sensazione che la città non sarebbe caduta così facilmente. Ricordo di avere ascoltato con preoccupazione un rispettabile notabile afghano – un parente del presidente fuggito Ashraf Ghani – che mi spiegava che i talebani non si sarebbero fermati finché non fossero entrati all’eliporto di Bagram, che un tempo era la più grande base militare americana nel paese, per sparare missili a pioggia su Kabul. In realtà le forze ribelli sono entrate spedite nel palazzo presidenziale e hanno proseguito dritte verso la scrivania vuota di Ghani. 

 

Kabul è una grande città che, da un punto di vista sociologico, non sembrava così favorevole ai talebani. Le cellule talebane nascoste si erano diffuse lungo tutta Kabul ed erano pronte a essere attivate, ma erano nascoste per un motivo: Kabul non avrebbe accolto con favore la bandiera bianca dei talebani. C’era anche il timore che il governo e le sue forze, per quanto spente e demoralizzate, avrebbero opposto un minimo di resistenza. Gli Stati Uniti si sono posti come un fulcro diplomatico. Al momento giusto, si sarebbero fatti avanti per evitare una battaglia sanguinosa per Kabul. A quel punto, non sarebbero stati solamente in grado di assicurarsi un briciolo di pace civile, ma sarebbero stati in una posizione privilegiata per ottenere una serie di concessioni da entrambe le parti. 

 

Washington avrebbe fatto il puparo anziché la potenza occupante. Presumibilmente l’evacuazione sarebbe iniziata solo a quel punto, con l’America nella cabina di comando e con un minore bisogno di mettere in salvo gli afghani compromessi con il regime precedente, perché sarebbero anche stati parte del nuovo regime. Dopo di che, tutto sarebbe dovuto andare liscio. Il crollo del governo afghano prima del ritiro degli americani sicuramente non faceva parte del piano. A Kabul ho sentito varie teorie simili e le ho trovate poco convincenti, ma non assurde. Questa era la teoria dell’‘accordo’. Un imprenditore afghano attivo nel settore dell’elettricità ha difeso questa teoria nei minimi dettagli e con grande convinzione, ma a un certo punto deve avere perso questa convinzione perché, prima che venisse trovato un accordo, si trovava su uno degli ultimi voli commerciali a lasciare Kabul. 


Se questa lettura è corretta, allora penso che il problema sia stato mettere la diplomazia al centro della strategia americana. Non esiste una soluzione militare, dicono nei cerchi diplomatici. A parte il fatto che spesso – forse sempre – questa esiste, e anche le società pacifiche ne fanno uso. Washington ha riposto la sua fiducia nella diplomazia anche quando non esisteva alcun processo diplomatico. L’amministrazione Biden è da rimproverare perché non riesce a non vedere il mondo come una conversazione diplomatica – questa è una visione profondamente sconnessa dalla realtà. Questa è un’amministrazione che si è formata nel mondo dei think tank, e prende la sua energia vitale dall’idealismo innocuo della sinistra millenial. L’incompetenza è disarmante. L’eliporto di Bagram è stato chiuso, eliminando ogni possibilità di portare a termine un’evacuazione ordinata. 

 

Le analisi dell’intelligence sono state deliranti, con il portavoce del Pentagono John Kirby che ricorda Baghdad Bob (il ministro degli Esteri iracheno che annunciava notizie improbabili durante la guerra del 2003, ndt). L’evacuazione è stata rimandata all’ultimo giorno. I visti non sono stati processati e le persone giuste non sono state identificate. L’aeroporto non era all’altezza. Non c’era cibo per neonati, acqua né servizi sanitari. Immaginatevi Henry Kissinger che inizia l’evacuazione di Saigon dopo la caduta della città anziché due settimane prima, e dopo avere mandato le portaerei a casa. Non ho mai visto una manifestazione di incompetenza così monumentale da parte di una democrazia occidentale come l’evacuazione americana dall’Afghanistan. 

 

Alla radice di tutto c’è una visione distorta delle relazioni internazionali. Tutta la strategia è stata un esercizio di politica virtuale. Primo, la creazione di un governo afghano virtuale. Non è un caso che i talebani si sono mossi con grande rapidità e fiducia quando hanno capito che non stavano combattendo un esercito o uno stato reale ma piuttosto una finzione o un fantasma proiettato da Washington sugli schermi dell’Afghanistan. Fa male guardare il presidente Biden sostenere che nessuno poteva prevedere che ‘le truppe che abbiamo addestrato sarebbero collassate così rapidamente’. Coloro che hanno fornito l’addestramento probabilmente dovrebbero essere ritenuti responsabili di quest’esito, ma l’America non viveva più nel mondo reale e quindi ha preso sul serio le finzioni che lei stessa aveva prodotto. 

 

Sono stati compiuti errori fatali all’inizio della guerra in Afghanistan e c’è stata una grande incompetenza alla fine, ma gli ultimi due anni non dovrebbero essere dimenticati. A Doha all’inizio del 2020, gli Stati Uniti si sono impegnati a rendere il proprio ritiro condizionale su un processo politico inclusivo. Questa condizione è stata abbandonata, un elemento aggiuntivo della finzione.  Non stiamo parlando di un comandamento morale nel tribunale mondiale della storia. Stiamo parlando di un pezzo di carta firmato poco più di un anno fa. 

 

Nei giorni prima della caduta di Kabul, gli ambasciatori europei nella città credevano che Washington avrebbe onorato le sue promesse e fornito protezione per le ambasciate nella green zone con una forza militare residua – conclude Maçães –. Questa promessa era stata fatta formalmente e le persone l’avevano presa sul serio. Ma anche questa promessa è stata disattesa, immediatamente (…) Oggi l’America si trova nella posizione di mediatore ma, più drammaticamente, di una potenza perdente”.

 

(Traduzione di Gregorio Sorgi)

Di più su questi argomenti: