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Il Foglio Arte

I radicali che inventarono l'architettura della notte

Lisa Bosi

Negli anni Sessanta, in bilico tra raffinata avanguardia e improbabile kitsch: “Vogliamo progettare discoteche, non musei”. E noi dove andremo a ballare?

L’architettura della notte nasce tardi. Quando, negli anni Sessanta, i progettisti provano a disegnare i primi spazi per il ballo non hanno tipologie a cui fare riferimento. Sono architetture nate da comportamenti sociali nuovi e che permettono una libertà progettuale inedita. Gli anni del boom economico sono iniziati da poco e portano con sé il vento dell’innovazione industriale soprattutto nel campo del design, dove tutto finalmente sembra possibile.

 

Nella società della produzione di massa c’è bisogno di organizzare anche il tempo libero, i momenti di festa, il ballo visto come pausa dal lavoro e affermazione del proprio io. Ed è in questo belpaese produttivo e industriale che nasce l’idea di discoteca, in particolar modo all’interno del dipartimento di Architettura dell’università di Firenze, tra le cui aule cresce uno degli ultimi movimenti architettonici italiani più importanti: l’architettura radicale.

 

“Vogliamo progettare discoteche, non musei!” dichiarano gli architetti radicali, con un ottimismo e una propensione verso il futuro che non si incontrerà più nella storia. I loro lavori sono rimasti per lungo tempo dimenticati, forse pagando duramente il loro approccio politico alla progettazione. La discoteca è il luogo della creatività, della libertà di azione politica, in una parola è il luogo dell’Utopia. Mutare la società mutando il ruolo che l’architetto ha in essa. L’architettura per loro non è più solamente il costruito, ma è anche un gesto, una performance, un’azione. L’uomo a fine anni Sessanta sente l’esigenza di rinnovarsi e questo può accadere tramite esperienze choc, disequilibranti: le famose Immersioni dell’arch. La Pietra.

 

Appare quindi chiara la volontà di cambiare il mondo, di migliorare l’esistenza, non più solo attraverso gli oggetti, ma attraverso luoghi che generino comportamenti nuovi. Non a caso nasce nel ’66 un corso a Firenze chiamato “Spazio di coinvolgimento” dove l’architetto e pittore Leonardo Savioli si dedica alla progettazione degli spazi di svago. Coinvolgimento è la parola chiave, che riecheggia anche in tutte le parole di Pietro Derossi, architetto, collaboratore dello stesso Savioli, che negli anni Sessanta progetta ben due discoteche passate alla storia: il Piper di Torino e l’Altromondo di Rimini. Sono “allestimenti per un’attesa”. Così lui definisce questi luoghi che attendevano di essere usati, di essere riempiti sempre di contenuti nuovi, luoghi che chiedevano fin da subito al loro pubblico di essere attivo, di partecipare ai “giochi”.

 

Arrivano lì i giovani hippy carichi di Lsd. A loro l’architettura dà una casa notturna, per happening, pièce teatrali, luoghi che hanno già al loro interno l’idea di libertà sessuale e razziale. Tutta l’arte povera passa da lì, da Gilardi a Pistoletto, che dà a 30 persone la maschera del suo volto e lamiere specchianti che si trasformano poi in un pavimento su cui ballare, in una duplicazione continua della propria identità. In quegli anni l’architettura si fa veicolo di moltissimi esperimenti. E in quanto tali non tutti perfettamente riusciti, sempre pericolosamente in bilico tra una raffinata avanguardia e un improbabile kitsch. Dalle sperimentazioni in vetroresina del Woodpecker a Milano Marittima dell’arch. Monti, alle più solide cupole in cemento di Dante Bini, la forma si fa pretesto per impossessarsi di nuove tecniche costruttive, come il Binishell appunto.

 

E’ infatti nei primi anni Sessanta che l’arch. Bini, vedendo nevicare sopra a una struttura gonfiabile all’interno della quale lui stava giocando a tennis, ragiona sulla resistenza che poca aria compressa può avere a fronte di un grande carico. Inizia nei dintorni di casa sua (Castelfranco Emilia) una lunga sperimentazione di cupole in calcestruzzo sollevato con la sola pressione dell’aria e con armatura a molle. E cosa possono essere questi “funghi” se non discoteche? I dancing ancora una volta si fanno portavoce del futuro. (Si annota qui tristemente, che proprio mentre si sta scrivendo quest’articolo, alcune di queste cupole sono in via di demolizione, mentre in Australia, lontanissimi dalla terra natia dell’architetto, diventano patrimonio da preservare e conservare con la massima cura.)

 

L’architettura radicale inizia a incrinarsi intorno a metà anni Settanta. La forte componente controculturale fa i conti con una “politica totalizzante”, non trovando più un equilibrio. Non si balla più! Quando, verso la fine degli anni Settanta, si crede che non ci sia più alcun futuro, finita la stagione delle grandi lotte in piazza, ci si domanda se non valga la pena allora avere tutto subito. In una società che vive solo nel presente la discoteca esplode. Non rimane che salire su una pista illuminata ed entrare ballando nel post-fordismo/post-moderno. La via Emilia si riempie di dancing. La disco music esplode, così come il fenomeno “Afro-cosmic”, mentre i parcheggi si riempiono di eroina.

 

Si accendono le luci, sopra sotto e di fianco, per una futura società edonista che vuole farsi vedere in discoteche che spuntano su tutto il territorio italiano. E dentro queste architetture, non tutte riuscitissime, le differenze sociali si livellano. Arriva il Riflusso. Qui i luoghi scompaiono e gli architetti non possono che dare le scenografie ai nuovi corpi desideranti e innaturali. Infatti, la raffinatissima Baia degli Angeli di Gabicce, aperta nel ’75 ben due anni prima dello Studio 54 di New York, nel decennio successivo cambia pelle e diventa una opulenta scenografia con tanto di colonne e statue arrivate dritte da Cinecittà. Perché tutti vogliamo vivere il nostro film ed esserne protagonisti. L’impegno politico è ormai un ricordo lontano. Il fenomeno sembra inarrestabile e negli anni Novanta l’architettura fa atterrare nelle campagne delle province italiane, lontano da sguardi benpensanti, delle astronavi, nuove case notturne per decine di migliaia di alieni che si dissolvono con l’arrivo del lunedì mattina. La fascinazione, lo straniamento era quello che si chiedeva ai progettisti.

 

La discoteca è camaleontica, come la moda, la musica, l’arte. E’ un involucro per allestimenti in continuo cambiamento. Il sapersi trasformare di stagione in stagione (o addirittura di settimana in settimana) è da sempre l’urgenza di questi spazi. Rifarsi insomma il trucco, prima di uscire per una notte da leoni. L’architetto di discoteche allora mette le ruote a sedie e tavoli, installa binari su cui corrono le luci sul soffitto, costruisce pareti e pedane mobili, nello sforzo continuo di esaudire i sogni folli dei direttori artistici. Enormi teche di cristallo per statue umane viventi, pareti fatte di monitor per leggere i passi dell’Apocalisse, corridoi pieni di buchi da cui spuntano gambe e teste (quando va bene), pavimenti trasparenti per esseri umani sotterrati vivi, grandi Buddha dorati da collocare nel locale sono solo alcuni dei sogni faticosamente materializzati in allestimenti temporanei che non conoscono limiti di fattibilità. Addirittura la facciata doveva essere convertibile in un progetto mai realizzato di Rem Koolhaas per il famosissimo Ministry of Sound di Londra. Poche altre architetture hanno in sé così forte il tema della flessibilità e della provvisorietà della vita.

 

Il fenomeno raggiunge dimensioni religiose. “I luoghi ove il corpo è pura macchina desiderante, non sono non-luoghi del tempo di non lavoro e dello svago, ma iperluoghi dove si costruiscono gli impulsi del consumatore e dell’utente finale intorno a cui ruota la produzione postfordista”, nota Aldo Bonomi parlando della riviera romagnola nel suo libro “Il distretto del piacere”. Chiese pagane. Con tanto di altare/consolle, ancelle/cubiste e ritualità dell’ecstasy presa in bocca come una comunione fra simili.

 

La progettazione di questi spazi ha a che fare con la ritualità e l’architetto deve soddisfare una delle aspettative più alte, deve promettere un altrove, un Altromondo dove passare un po’ di ore uscendo da sé stessi, o forse trovando per la prima volta veramente sé. “La discoteca è un ascensore sociale. Non sei più ciò che fai, ma sei solo ciò che consumi.” nota Pier Pierucci, storico gestore di club romagnoli.

 

Unica regola: non vedere mai questi spazi con la luce naturale, ma vivere nell’artificiale, ribaltando tutti i paradigmi delle altre tipologie architettoniche. I primi club americani erano fatti solo di luce e suono, impalpabili come le emozioni che vogliono scaturire.

 

Di questa avventura oggi rimane una moderna “Pompei”. Difficile, se non impossibile, trovare una loro ricollocazione nel contemporaneo. Sono semplicemente chiese che hanno momentaneamente perso i loro fedeli. Dove andremo a ballare domani?

 

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