storia di un'opera

Il “bel” maglio per Franceschi alla Bocconi

Ivan Carozzi

 Il monolite industriale posto per ricordare lo studente ucciso. Storia e ideologia di un “weekend postmoderno”

Lo ha dichiarato il designer Enzo Mari: quello davanti all’Università Bocconi è “il più bel monumento di Milano”. Si tratta di una sorta di menhir, da qualche tempo antistante a una rastrelliera del bike sharing. Sette metri di altezza e cinquanta tonnellate di peso. Nel 2013, intabarrato in un loden color mogano, sciarpa verde felce e cappellino beige di lana, Mari è dinanzi al monumento, insieme all’allora sindaco Giuliano Pisapia. Il Comune di Milano, a ben trentasei anni dalla posa, riconosce ufficialmente il monumento. La complessa vicenda che sta alle spalle merita di essere raccontata, anche per provare a comprendere che cosa Enzo Mari, scomparso lo scorso ottobre a 88 anni per complicazioni dovute al Covid-19, potesse intendere con “bel”.

 

Il 23 gennaio 1973, Roberto Franceschi, studente dell’Università Bocconi, viene ucciso da un proiettile della polizia (lo sparatore non verrà mai identificato). Franceschi diventa per tutti gli anni Settanta un simbolo dell’antifascismo milanese. Gli viene perfino tributata una canzone, scritta da Franco Fabbri, che molti studenti impareranno a memoria. Sul luogo della tragedia, viene disegnata una piccola aiuola con una lapide. La lapide, tuttavia, è bersaglio di continui e odiosi atti di vandalismo. A quel punto un gruppo di universitari della Bocconi e il Movimento studentesco, di cui Franceschi ha fatto parte, decidono di pensare a un monumento vero e proprio. Ne discutono con lo scultore Alik Cavaliere e con una serie di artisti che lavorano tra i Navigli e Porta Romana. Si forma un comitato eterogeneo, di cui è parte Enzo Mari. Il comitato valuta bozzetti e proposte. Molte delle proposte s’ispirano al realismo socialista. Alla discussione partecipano non solo gli studenti, ma anche alcuni comitati operai di Sesto San Giovanni. È un processo lento e faticoso. I soggetti coinvolti e ascoltati provengono dal mondo delle fabbriche, della cultura e dell’università. Ciascuno è chiamato a interrogarsi sulla forma e il significato del futuro monumento allo studente Franceschi. Tuttavia il nodo va sciolto.

 

Grazie alla frequentazione degli stabilimenti di Sesto e al confronto con gli operai, Mari e gli altri, più che trovare idee e progetti, riscoprono la potenza di un intero immaginario. “Si decise”, racconta Mari, “di non seguire le ingenue proposte emerse, ma di scegliere un grande manufatto dell’industria come simbolo della partecipazione operaia. Cominciammo a visitare depositi di rottami industriali […] Questi manufatti per materiale e dimensioni hanno un fascino particolare. Una sensibilità di questo tipo era nata in me perché, come progettista, avevo vissuto nelle fabbriche e sapevo della grande qualità intrinseca del lavoro operaio. Ciò è evidente, ad esempio, nelle lavorazioni delle fonderie, o nella realizzazione dei prototipi in cui gli operai manifestano non solo la capacità di costruire, ma la cultura del fare. Gli ingegneri, in molti casi, arrivano dopo… spesso la loro funzione è solo quella di ratificare […] visitammo parecchi depositi. […] trovavamo interessanti le forme di molti grandi manufatti e nel frattempo riflettevamo sul fatto che un oggetto dovesse essere più “astratto” […] Ricordo di aver osservato a lungo una di quelle grandi tenaglie costituite da un becco a quattro punte, che vengono usate per sollevare materiali eterogenei o rottami ferrosi e che esprimeva un’immagine quasi espressionista di cattiveria, di purezza”.

 

Al termine di un dibattito collettivo, l’oggetto che verrà poi installato di fronte alla Bocconi è individuato in un severo e minaccioso maglio industriale, fabbricato in Germania nel 1941, circolato per diversi paesi e alla fine giunto a Milano. L’opera quindi è un ready made, ma la sua reale novità e valore artistico sono nel dialogo, nella socialità e nella lunga conversazione che l’hanno preceduta. Un caso unico nella storia della ideazione e produzione di un monumento. “La forma del maglio”, aggiunge Enzo Mari, “ci convinse subito, sia per le sue proporzioni architettoniche di grande monolito, sia per il fatto che simbolicamente è un martello gigante, il simbolo primario del lavoro, da gran tempo intrinseco all’araldica della sinistra”. Il progetto viene presentato alla Biennale di Venezia nel 1976 e infine il 16 aprile 1977 il maglio – così misterioso nella sua assertività astratta e primitiva  – viene installato di fronte alla Bocconi, con una scritta scolpita alla base, che da allora non cessa di dialogare con l’edificio dirimpetto: “A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella Nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato”. Il sindaco Carlo Tognoli, socialista e molto amato (pure lui scomparso per complicazioni dovute al Covid) non riconosce il monumento, ma neppure si oppone. Mari partecipa al trasporto, seguendo a bordo di un camion il maglio che alle cinque del mattino s’incammina lungo la tangenziale ovest, per poi entrare in città per via Ripamonti. Salutato da una folla, il maglio viene posato.

 

Due anni più tardi, nel 1979, arriva in libreria il saggio La condizione postmoderna del filosofo François Lyotard. Secondo lo scrittore Pier Vittorio Tondelli – lo afferma in uno dei testi raccolti in Un weekend postmoderno –  nel lustro 1975-1980 si consuma già la prima fase del postmoderno. Il maglio, con la sua immanenza tetragona, ancorato a un senso del vero che è radicato nella materia e nel lavoro, sembra oggi un tentativo di scongiurare l’avvento di una banalità del molteplice, dell’effimero e dell’immateriale. Ma di unico e raro nel monumento a Franceschi, c’è il processo che lo ha prodotto. Proprio perché si sa che la democrazia è faticosa e imperfetta, ci si stupisce quando alla fine lascia frutti così preziosi.
 

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